Il punto dell’Osservazione

del Dott. Giuseppe Preziosi

Nelle mie osservazioni, spesso, la restituzione è affidata ad un soggetto che parla: è il bimbo o la bimba o il gruppo di bambini che è apparso al centro della stanza durante la seduta di supervisione.

Cosa è poi il nostro incontrarsi, ormai da diversi anni, se non un tempo nel quale le nostre parole provano a tracciare la forma del soggetto che si incontra nelle stanze di lavoro?

Ognuno dei partecipanti al gruppo porta i suoi significanti, attinti dai diversi linguaggi che ci attraversano, professionale, familiare, tecnico, emotivo, e messi insieme costruiscono l'immagine del piccolo ospite del nostro studio; proviamo a ricostruire il passato, descrivere il presente, immginare un futuro.

Il lavoro di osservazione si origina nell'esperienza dello psicodramma analitico all'interno di gruppi terapeutici, un contesto differente dalle finalità della supervisione. L'osservatore mantiene comunque il focus della sua attenzione al soggetto nel contesto del gruppo, è al soggetto che rivolge le sue parole mantenendo sempre attento l'ascolto al discorso del singolo e ai movimenti gruppali.

In questi anni di esperienza nel gruppo di supervisione ciò che ha interrogato la mia posizione è stato proprio il materializzarsi di questo soggetto/oggetto del racconto clinico, un soggetto/oggetto abbagliante che rischia di accecare lo sguardo dell'osservatore.

Mi sembra utile riportare alcune riflessioni sull'osservazione tratte da un articolo di Antonella Parenti e Fosco Patriarchi[1].

Gli autori descrivono il posto dell'osservatore come il luogo della sospensione, una posizione che può sembrare comoda ma che costringe  a fare esperienza della frustrazione, dell'astensione, della messa in angolo, significa poter mettere in attesa la parola, l'interazione, accettare il rischio di scomparire, è esperienza di mancanza, vuoto, silenzio. Questa affronto al narcisismo non può che suscitare frammenti di rigetto che invadono il campo dell'ascolto, dello sguardo e della scrittura, elementi che vanno sempre sorvegliati per evitare di saturare il campo dell supervisione con il tentativo di allontanare l'angoscia. In modo speculare, il momento della lettura sembra offrire l'occasione di un riscatto onnipotente, il potere dell'ultima parola, l'essere al centro dello sguardo. Ulteriori elementi che, se non sufficientemente elaborati, rischiano di mettere sotto inciampo il lavoro dell'osservatore.

Questo riscatto onnipotente, riflettendo sul mio percorso di osservatore nel gruppo di supervisione, può prendere la strada di affidarsi alla teoria e a costruzioni rigide che da essa possono derivare. È interessante notare che più volte il mio mettere in campo nell'osservazione il minore, non sembra esser stato un espediente per permettere di interrogare il professionista in gioco ma per tentare di ingabbiare il racconto clinico e di conseguenza il suo protagonista in una interpretazione basata sulla formazione teorica di partenza.

L'obiettivo delle mie osservazioni dovrebbe essere il rilancio di domande nuove o inascoltate, qualcosa che abbia a che fare con la sorpresa; il tentativo, come insegna la psicoanalisi, è presentificare l'enigmatico, afferrare il valore significante della parola e rilanciarlo in campo; poter dare testimonianza del non detto, della domanda che, tra le righe, colui il quale porta al gruppo il suo racconto ha posto senza saperlo.

Non bisogna mai obliare la dimensione rassicurante della teoria e dell'identità professionale, la rassicurazione della competenza e del riconoscimento sociale che ne deriva.

Il fantasma del professionista che mette in gioco il suo incontro clinico rischia  di sovrapporsi al fantasma dell'osservatore, dando forma ad un bambino immaginario che non interroga ma in qualche modo tranquillizza.

Proviamo a seguire le indicazioni di Elena Croce[2] anche se riguardano un contesto in parte differente (supervisione per analisti, terapeuti, psicodrammatisti attraverso lo psicodramma analitico). L'osservatore si pone al di fuori del cerchio del gruppo e il suo compito non è nè riassumere, nè sintetizzare, nè rispondere ma rilanciare le questioni aperte e i legami sottesi che sono emersi.

Queste indicazione valgono per il lavoro più ampio della supervisione che, in un contesto di professionisti "innamorati" del loro sapere e delle loro teorie, può rischiare di perdersi in un inseguirsi di ragionamenti, elaborazioni, interpretazioni, congetture mantenendosi su di un piano, seppur corretto, psicologico e dimenticandosi di interrogare l' "altrove" della questione psicoanalitica.

Credo anche che un lavoro di supervisione che si avvalga di un ascolto analitico possa essere utile anche per chi non sia analista ed eserciti professioni differenti. Riprendo questa volta le parole della dott.ssa Falavolti[3] riguardo una esperienza di Role Playing all'interno di un servizio pubblico romano finalizzato alla sensibilizzazione all'ascolto analitico: "il valore della funzione analitica risiede nella possibilità di porsi in un ascolto degli altri e di se stessi disposto a lasciarsi sorprendere dal senso, non solo immendiato e manifesto, dei significanti in gioco."

Lo strumento a cui abbiamo dato forma e che contuiamo a rifinire nel proseguire degli incontri sicuramente si presta a possibilità di inciampo; la sua natura multidisciplinare, la sua doppia interlocuzione, con la neuropsichiatria infantile e la psicoanalisi, rendono il ruolo dell'osservatore ancora più complesso e in parte enigmatico.

Non credo inoltre si possa sottovalutare la dimensione relazionale che attraversa il gruppo aldilà del gruppo stesso e dei rapporti professionali. Se nella letteratura scientifica è più facile incontrare dinamiche gruppali e lavorative intrise di invidia, gelosia, livore anche un contesto, forse solo all'apparenza, pervaso da un clima collaborativo, sereno, amichevole può rivelarsi un ostacolo ad un lavoro di supervisione che non sia rassicurante.

Il confronto con altri professionisti, la messa in campo degli inciampi, del dubbio non può non implicare il rischio di una irrigidimento della propria identità professionale.

Riprendo una passaggio dell'articolo della Croce che cita Laplanche " il lavoro che si tenta di fare qui, in sede di supervisione, consiste appunto nel far sì che il trauma dell'impatto del materiale che emerge nel corso del rapporto terapeutico, da occasione di rimozione, di inibizione o magari di destrutturazione, si recuperi, per quanto possibile, come momento di rinnovamento e riscoperta delle proprie risorse di cui momentaneamente si è perduta la disponibilità".

Il lavoro che stiamo affrontando insieme, mi sembra, abbia le caratteristiche di una tessitura costante, non riferendomi al contenuto delle diverse sedute ma nella definizione della trama che le sottende. Una orditura dei diversi fili che compongono le nostre professionalità non  per realizzarne un tutto pieno, ma un vuoto, un di meno, uno spazio per la ciò che la Croce chiama trasgressione " trasgressione dello status quo, dell'omeostasi, delle convinzioni pacifiche e sonnolenti, e trasgressione, infine, di ogni atteggiamento trasgressivo sistematico e fine a se stesso...".

In tale contesto quale il ruolo dell'osservatore? Riprendo la domanda retorica posta all'inizio di questo scritto:

Cosa è poi il nostro incontrarsi se non un tempo nel quale le nostre parole provano a tracciare la forma del soggetto che si incontra nelle stanze di lavoro?

A questo punto può sembrare una pretesa ambiziosa e forse illusoria.



BIBLIOGRAFIA:
[1]Antonella Parenti, Fosco Patriarchi: L’osservazione: una “sedia” che forma. Areaanalisi Anno IX, n. 16/17 aprile/ottobre 1995.
[2]Croce B. Elena: Prospettive dello psicodramma analitico e supervisione in Funzione analitica e formazione alla psicoterapia di gruppo; Croce B. Elena ( a cura di) Borla, Roma.
[3]Falavolti Stefania, Role Playing e formazione nei servizi sociali  in Funzione analitica e formazione alla psicoterapia di gruppo; Croce B. Elena ( a cura di) Borla, Roma.