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“L’occhio che mi guarda”

Introduzione di Nicola Basile

Si può interagire attraverso lo sguardo, lo hanno dimostrato le ricerche sulle relazioni neonatali tra madre e infante, lo hanno confermato le ricerche sui neuroni a specchio, lo troviamo scritto e descritto nelle ricerche della Esther Bick sulla relazione madre bambino, ne ha fatto una metodica osservativa il gruppo diretto da Franco Scotti che ha pubblicato i suoi lavori in quel bel libro intitolato “Osservare e Comprendere” (2002) che narra come l’incontro degli sguardi metta in moto progettualità nei diversi campi della relazione di cura. L’elenco tralascia ovviamente l’intera ricerca condotta dalla psicoanalisi nelle persone del suo fondatore Sigmund Freud, quella della Klein, che proprio intorno alla pulsione scopica scrive pagine memorabili, alle pagine di Winnicott che intreccia sguardo e segno con i suoi piccoli analizzandi per non terminare con Jacques Lacan e il concetto dello specchio, in cui si dà conto dell’origine dell’inconscio. L’elenco deve essere per forza incompleto per lasciare spazio alle righe che gentilmente Pau Farràs Ribas ha scritto e tradotto per noi dal catalano.  Con Pau da anni lavoriamo a intenso scambio proprio sull’esperienza di cosa possa produrre un osservatore in un campo educativo, osservatore partecipante ma astinente, allenato a sostenere per un tempo dato un ruolo di presenza senza parola e meno ingombrante possibile. L’articolo recentemente apparso su “El jardì de Sant Gervasi“, nello spazio nominato “L’arte di osservare”, Pau lo ha tradotto per noi e noi lo pubblichiamo nelle due lingue, catalano (raggiungibile con il link sulla pagina) e italiano perché i suoni si confrontino, si completino, suscitino domande. Ringraziamo ovviamente Dino Buzzati e il suo cane Galeone, (1968) , che ci hanno dato un’altra opportunità di incontro e che speriamo vengano nuovamente letti e apprezzati.
1) 2002 Borla editore
2) 1968 Arnoldo Mondadori Editore

L’occhio che mi guarda di Pau Farràs Ribas

Ancora adesso, dopo abbastanza tempo, mi ricordo dello sguardo di una bambina di circa tre anni che giocava con un’altra bambina e che, all’improvviso, fermò il gioco, guardandomi fissamente. Aveva alzato la mano come per colpire la sua compagna di gioco, ma pur avendo la mano in alto, ha bloccato il gesto e, ancora con la mano alzata, come se avesse congelato il movimento, mi ha guardato, ha mantenuto lo sguardo per un attimo e l’ha abbassata senza toccare nessuno. Non avevo detto nulla, non avevo accennato a nessuna intenzione né ad alcun gesto. Per un momento mi sembrò che la piccola aspettasse qualcosa da me. Ma io non ho agito. Senza che io abbia coscientemente riflettuto , lei stessa sembra averlo fatto perché non ha colpito l’altra bambina. Questa scena, che poi sono tornata a osservare in situazioni simili, mi ha lasciato molto scioccata.
C’è una storia dello scrittore Dino Buzzati, chiamata
Il cane che ha visto Dio, che mi fa pensare alla scena appena descritta. Questa storia racconta come un giorno è comparso nel paese di Tis un cane che chiamavano Galeone, un cane che “non è rabbioso, né aspro“. Per un evento fortuito, iniziò a correre la voce tra gli abitanti di Tis, che Galeone aveva visto Dio. “Galeone con straordinaria familiarità passa da un luogo a un altro, entra nelle osterie e nelle stalle. Quando meno ce se lo aspetta eccolo là in un angolo, immobile, che guarda fissamente e annusa. […] Gli uomini non si sentono più soli, neppure quando sono in casa con porte sprangate.” E cominciano a cambiare il loro modo di fare. Così, vedendo il cane, un negoziante smette una discussione con la moglie, una vicina che parlava male della moglie del sindaco comincia a dire che quella è una brava persona, il proprietario della fornace che è pronto a licenziare il manovale, rinuncia a farlo, i ladri di biciclette decidono di abbandonare il furto, il fornaio smette di lesinare ai poveri… e così tante altre scene. “Perché queste e tante altre cose? […] hanno paura di un cane, non di essere addentati, semplicemente hanno paura che il cane li giudichi male.” I vicini si sentono ambivalenti davanti al cane, a volte hanno la sensazione che egli sia ingombrante, anche se non osano dirlo, lo farebbero sparire; altre volte, quando il cane attraversa momenti difficili, sentono compassione e lo aiutano, gli portano riparo e cibo. Non rivelerò la fine della storia, ma possiamo dire che da un certo punto, quando la gente di Tis vedeva qualsiasi cane che assomigliava Galeone, sentiva il suo sguardo su di lei.
In realtà, di chi è questo sguardo, lo sguardo del cane?
È lo sguardo di qualcuno esterno o è il proprio sguardo su se stessi?
In un’altra occasione, mentre guardavo come dei bambini giocavano in un nido, ho visto come uno di loro, che aveva una certa difficoltà a interagire con i compagni, era divenuto per un momento il capro espiatorio.
Alcuni compagni di quel bambino si erano lamentati con lei per il suo comportamento, e la maestra, senza arrivare a rimproverarlo, aveva avvertito il piccolo. Mi ricordo molto bene che in quel momento mi sono chiesto se quel bambino aveva difficoltà a mettersi in relazione con gli altri a causa della mancanza di modelli di rapporto, se gli mancavano
carezze e ore di gioco con gli adulti più prossimi, ma non ho detto nulla all’insegnante. La settimana successiva, si è prodotta di nuovo una situazione simile, ma questa volta l’insegnante, davanti la denuncia dei colleghi, ha avuto un atteggiamento del tutto diverso: ha preso in braccio il piccolo bambino e ha cominciato a parlargli, a giocare con lui e a coinvolgerlo. Mi chiedo, quindi, se un cane come Galeone, ci può lasciare di tanto in tanto il suo sguardo per aiutarci a fare una cosa molto difficile: quella di potere vedere noi stessi, come agiamo, cosa facciamo ma anche come potremmo agire e che cosa potremmo fare.

 

Essere garanti dell’esperienza, offrire sguardo di Giuseppe Preziosi

Nella relazione educativa con le mamme e i bambini in istituzione uno degli elementi più delicati è il “prender posizione”, il calibrare la giusta distanza in quel fragile gioco di scatole cinesi che è il contenimento nel rapporto genitori/figli. L’educatore deve poter garantire lo svolgersi dell’interazione tra la giovane mamma e il suo bambino, contenendo le sue difficoltà e le sue paure e permettendole di essere essa stessa contenitore sicuro e accogliente per le esperienze di crescita del piccolo. Essere garanti dell’esperienza, offrire sguardo, pensiero non vuol dire sostituirsi ma riguarda per molti aspetti la “presenza in assenza”, posizione caratteristica dell’osservazione diretta. Offrire la propria presenza e il proprio contenimento fecondo “un passo indietro” permettendo all’altro la possibilità di esprimersi, anche di sbagliare; non soffocare l’esperienza nella pretesa di conoscere in anticipo cosa accadrà, aprirsi alla sorpresa, all’inaspettato. In una istituzione per giovane ragazze madri, che per la loro storie non hanno ricevuto adeguate esperienze di cura e di affettività, la giusta distanza è un elemento imprescindibile. Le mamme in casa famiglia, a causa delle loro lacunose esperienze di accudimento, replicano modelli inadeguati di cura: o una invasiva presenza che rischia di soffocare ogn i possibile sviluppo di vitalità e soggettività nello svolgersi del processo di crescita o un profondo distacco, disinteresse, anche una difesa, dinanzi ai bisogni fisiologici e relazionali del bambino percepiti come “infantili”, privi di senso, sciocchi. Specularmente alle giovani madri si offre un modello per poter “stare” nella relazione con i loro bambini, in presenza, con lo sguardo.

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