Psicodramma in gioco negli scenari istituzionali

La terapia di gruppo nel contesto istituzionale:
possibilità, eterogeneità e limiti nelle esperienze
delle ASL Roma 4, Roma 1, Roma 2.
Psicodramma in gioco negli scenari istituzionali

di Annalisa Pascucci¹

“(...) innumerevoli, come granelli di sabbia,
sono le passione umane e tutte diverse l'una dall'altra e tutte quante,
meschine e nobili, da principio stanno soggette
all'uomo e divengono poi le sue terribili tiranne (...)”
Gogol “Le anime morte” (1842)

Quando parliamo di gioco d'azzardo intendiamo tutti quei giochi che si fondono su qualche evento che non dipende dall'abilità del giocatore sul quale egli non ha alcuna presa, lo scopo è vincere nei confronti del Destino. Il gioco d’azzardo può essere definito come lo scommettere su ogni tipo di evento ad esito incerto, dove il caso in grado variabile, determina tale esito. Il gioco d’azzardo è oggi in Italia un’attività di massa di enormi proporzioni che coinvolge un sempre più ampio settore della popolazione. Dati eurispes ci dicono che negli ultimi 10 anni il gioco d'azzardo è diventato la terza industria dello stato dopo Fiat ed Eni. Nonostante la crisi economica e occupazionale, crescono le spese degli italiani per il gioco d’azzardo, l’unico consumo che cresce, mentre tutti gli altri diminuiscono. Esiste una correlazione, che è stata studiata dal premio Nobel Milton Friedman nel 1949, tra andamento dell’economia e spese per l’azzardo. Una formula espressa dal motto “quando l’economia deperisce, l’azzardo fiorisce”. Ed è una legge economica che si conferma ancora oggi. Possiamo dire che il gioco d’azzardo è una patologia prevedibile, curabile e guaribile ma è necessario fare diagnosi precocemente e sono indispensabili adeguati supporti psicologici e sociali. In assenza di misure idonee di informazione e prevenzione, non solo per gli utenti ma anche per il personale sanitario può rappresentare, per la sua diffusione, un’autentica malattia sociale. Qualunque teorizzazione sul gioco d'azzardo non può prescindere da una riflessione sul contesto sociale e culturale in cui questa sofferenza si manifesta. Infatti, le profonde trasformazioni avvenute negli ultimi venti/trent’anni nei codici socio-antropologici della nostra cultura hanno modificato la forma e i luoghi della psicopatologia e della sofferenza, ponendo nuove sfide alla tradizionale impostazione dei progetti terapeutici. È così cambiato il rapporto tra società e Servizi e la domanda posta oggi dal sociale e le risposte che noi operatori dei servizi delle dipendenze ci siamo trovate a fornire. Oggi inoltre possiamo dire che viviamo in una condizione di “malafede diffusa” in cui proponiamo ai nostri giovani modelli di vita irraggiungibili se non attraverso l’uso di sostanza e comportamenti additivi rispetto alla normale dotazione umana. Il quadro attuale si aggancia all'esaltarsi dei valore che caratterizzano lo stile di vita di una società di mercato: concorrenza e competitività senza limiti, così come senza limiti pare debbano essere i consumi. Con Recalcati, possiamo affermare che la nostra epoca è caratterizzata da individui votati permanentemente al consumo, smarriti nel godimento, che hanno perduto la bussola orientativa del limite e della castrazione. Il soggetto di oggi è un soggetto che ha smarrito il desiderio e che vaga disperatamente in cerca o di oggetti di godimento che illudono di saturare la mancanza (come le droghe, la cocaina fra tutte… ), o si congela in rassicuranti identificazioni solide "a massa". Nel libro “L'uomo senza inconscio”, Recalcati mette in evidenza come forme di sofferenza quali ansia/ panico, depressione, anoressia/bulimia, gioco d’azzardo, nuove e vecchie dipendenze, etc, sono figlie dell’ipermodernità e degli stili di vita occidentali nonché dei rapidissimi mutamenti sociali dovuti all’accelerazione della storia degli ultimi anni. Nello specifico, l’anoressia, la bulimia, la tossicomania, la depressione, il gioco d’azzardo, le crisi di panico, hanno come radice comune la difficoltà del soggetto ad accedere all’esperienza del desiderio, che diviene una spinta avida, l’individuo si fa come un vaso forato che non può in alcun modo soddisfare il suo desiderio. Sembra dunque che uno degli aspetti che caratterizza il nostro tempo è l’insoddisfazione che governa il mondo interno dei contemporanei. Nel caso del giocatore patologico, ciò che sembra caratterizzante è l’impazienza, la necessità improrogabile di avere subito successo, il desiderio di fuga, la pigrizia psichica, la dipendenza da persone e cose ed una forma di immaturità emotiva. In altri termini, a volte non è in grado di stabilire efficaci relazioni sociali e tale carenza esistenziale lo rende incapace di assumersi responsabilità da vero “adulto” e di indirizzare il proprio agire verso gli aspetti utili della vita (lavoro, relazioni affettive e amicali, etc). 

La dipendenza può essere descritta come un particolare coinvolgimento in un’abitudine ripetitiva e persistete lontana dal tener conto delle possibili conseguenze. Prima di essere una condizione neuro-biologica la dipendenza rappresenta una risposta psicopatologica a fattori antichi 3 strutturatisi lungo il percorso evolutivo. Le droghe, l’alcol, il gioco d’azzardo (e così tutte le altre…) diventano sostituti utili per modificare, o meglio, stravolgere la percezione del proprio ambiente circostante e, forse soprattutto, l’immagine che si ha di se stessi. L’Io è costantemente minacciato da vissuti di perdita e di solitudine e la percezione di sentirsi svuotati e, soprattutto, frammentati pone l’individuo in una condizione di pericolo di essere pervaso dall’angoscia di essere quello che è. Chi soffre di qualsiasi tipo di dipendenza porta con sè una estrema vulnerabilità che, in particolare nei passaggi evolutivi o nei momenti di particolare stress, non permette di mentalizzare le emozioni che si stanno provando e trova l’unica risposta per sfuggire all’angoscia nell’atto del comportamento psicopatologico.
La dipendenza fornisce una vacua illusione di avere il controllo sulla propria vita (a differenza di quello che succede nei propri contesti reali), scappatoia che non fa altro che aumentare il vortice di dolore per sé e per tutti coloro che sono attorno al paziente. È un continuo tentativo di raggiungere “tutto e subito” e “sempre di più” che allevierà il vissuto depressivo al momento dell’atto patologico, ma lo esaspererà nel momento in cui si torna a fare i conti con la realtà di una esistenza incompleta.
L'oggetto della personalità dipendente, differentemente dall'oggetto transizionale, non è utilizzato per favorire lo sviluppo del processo di separazione-individuazione e non serve al superamento dell'angoscia di separazione.
Il movimento psicopatologico del soggetto dipendente, è orientato proprio verso il mantenimento di una condizione simbiotica, con al massimo la possibilità di sfogarsi, favorendo una scarica compulsiva immediata sempre meno appagante e risolutiva. Con le parole di Elena B. Croce, fisiologicamente la condizione umana è una condizione di dipendenza dall'Altro, tanto più ci ritagliamo una illusoria condizione autarchica, tanto più ci ritagliamo la strada della dipendenza vera.
È su tali basi fisiopatologiche che si fonda il lavoro del gruppo, che tende, invece, a trasformare l'oggetto della dipendenza in un oggetto transazionale, con i suoi limiti, le sue mancanze ma che consente di vivere anche con le proprie emozioni. I giocatori scoprono uno spazio non magico delimitato da ritmi precisi nel quale potersi esprimere e scoprire la solidarietà tra pari pur nelle soggettive difficoltà. Nel lavoro istituzionale particolarmente rilevante è il lavoro che la persona sviluppa nell’ambito dei gruppi psicoterapeutici. “Il Gruppo - afferma De Luca - offre la rappresentazione di una scelta possibile. Quando un problema è comune e condiviso, diventa affrontabile. Ecco allora che la terapia di gruppo diventa l’ultima carta da giocare”
In tal senso, il gruppo si viene a costituire come spazio in cui è possibile per ognuno, recuperare il significato della propria storia, una storia che investe non solo la persona ma anche l'insieme delle sue relazioni, delle sue appartenenze, configurandosi dunque come una possibilità di cambiamento delle proprie modalità relazionali che, in quel momento, generano una grave sofferenza psichica e sostengono ineluttabilmente il desiderio compulsivo di rivolgersi univocamente verso il gioco d’azzardo.
Nello specifico del nostro servizi, le sedute di psicodramma analitico avvengono a cadenza settimanale e la loro durata e di circa novanta minuti e un gruppo misto in cui possono partecipare persine con problemi di dipendenza in senso.
La partecipazione al gruppo psicoterapeutico è frutto di una domanda soggettiva che, quindi, va costruita.
Lo Psicodramma, per definizione, è un gioco. E come tutti i giochi ha bisogno di regole che garantiscano il gruppo che vi partecipa. Elena B. Croce sottolinea chiaramente che si parla di regole e non di regolamenti, non sono previste sanzioni qualora un partecipante non rispetti una regola. C’è però un pensiero, ossia qualsiasi cosa accada fuori dalle regole va pensata, portata in gruppo e analizzata, anche attraverso il gioco.
In questo lavoro ciascun componente del gruppo, porti con sé, rispetto al problema della dipendenza, aspetti antichi di perdita che conducono ad un incessante tentativo di recuperare qualcosa che è mancato.
Freud, dicendo che esiste qualcosa al di là del principio del piacere, sottolinea come ci sia una pulsione a ricominciare continuamente, ad insistere a ripetere esperienze desiderate ma mancate che pongono il problema di quella che definisce la “pulsione di morte”. Tale ripetizione è spinta più dalla mancanza che dalla ricerca del piacere, mancanza e vuoto legati ad oggetti edipici perduti nel rapporto con coloro che hanno sostenuto le funzioni materna e paterna.
Allo stesso modo, la ripetizione che propone lo psicodramma analitico, al momento del gioco, rappresenta un tentativo, seppur inconscio, di recuperare qualcosa che è mancato. Chi si “mette in gioco” inevitabilmente si espone a correre dei rischi, su tutti quello di liberarsi da difese che lo proteggono dalla paura di frammentarsi, disperdersi di fronte allo sguardo degli altri.
Lo psicodramma è un luogo di continue identificazioni che ciascuno attiva con i terapeuti (transfert verticale) o con gli altri componenti del gruppo (transfert orizzontale). È come se il gruppo si rinnovasse ad ogni passaggio, si muovesse in maniera veloce e dinamica da avere, in condotta omeostatica, l’esigenza di riorganizzarsi continuamente.

Ogni componente percepisce la paura di disperdersi e si sente esposto allo sguardo dell’altro. Ma tra di loro non si conoscono e, quindi, in particolare nei passaggi evolutivi del percorso terapeutico (come ad esempio l’inizio del trattamento) subentrano paure, disagi e aggressività che difensivamente richiamano l’utilizzo di un funzionamento protettivo. Il gioco è quindi qualcosa di nuovo, diverso da ciò che è stato e si crea uno scollamento che offre diverse possibilità identificatorie. Non c’è il tempo per programmare una risposta “razionalizzata”, ma si cerca di difendersi come si può per stare sospesi in una situazione di dubbio il meno possibile. In questa fase l’inconscio si mostra e i vari funzionamenti difensivi si caratterizzano nelle proprie specificità. I terapeuti utilizzano il dispositivo per rimandare ai pazienti un’ipotesi di pensiero (per lo più inconscio) alla base delle azioni giocate (e quindi del ricordo passato): il paziente può così iniziare ad elaborare il lutto di ciò che non è stato, di ciò che è mancato superando il bisogno di rimanere ancorato per sempre a quella situazione.
L’utilizzo dello psicodramma può essere uno strumento particolarmente utile per riattivare un processo simbolico attraverso l’esplorazione dell’immaginario.
All’interno di questo dispositivo il paziente comincia a confrontarsi, parafrasando Lacan, con l’Altro inteso come significante. Lentamente ma in maniera progressiva, il paziente comincia a confrontarsi con un “soggetto” che, durante la seduta, sia quando c’è lo scambio verbale che quando si passa dalla scena narrata a quella giocata, vive una condizione di dubbio, ma anche di domanda, rispetto a quale sia il suo posto all’interno di quello scambio emotivo e relazionale. Il gruppo favorisce il confronto contemporaneo con tante realtà psichiche, tante possibilità di incontro sia con le singole individualità che con la dimensione gruppale. Infatti, partendo da una dimensione immaginaria, grazie al libero fluire della parola e alle associazioni dei vari partecipanti del gruppo, si favorisce l’emergere di aspetti inconsci e profondi osservabili solo attraverso il passaggio alla funzione di rappresentazione insita nello psicodramma analitico. Il soggetto nel gruppo è circondato dagli sguardi degli altri e l’immagine che ciascuno gli rimanda è profondamente diversa a seconda degli occhi di chi lo guarda. L’immagine arriva così frammentata e, nel tentativo di ricostituirla, possono emergere aspetti unici, sconosciuti fino ad allora perché soffocati dall’equilibrio strutturato dalla propria immagine abituale e consapevolmente offerta all’altro. Ogni partecipante fa così esperienza delle incongruenze tra ciò che pensa di essere e ciò che pensa che gli altri vedano in lui. E proprio da questa incongruenza dettata dal gioco degli sguardi si sviluppa la cognizione di una mancanza, unica possibilità di arrivare a maturare un desiderio, quindi una domanda soggettiva. 
In alcuni pazienti appare evidente come pur essendo riusciti a superare il sintomo manifesto della dipendenza (droga, alcol o gioco d’azzardo), permangano aspetti di fuga, di evasione priva di progettualità volta ad una gratificazione immediata.

Riporto di seguito alcune “vignette cliniche….”

 All’incontro partecipano Filippo, Mauro e Franco.

“Filippo è astemio da 3 anni, è sposato ed ha un figlio di 1 anno. È questo il secondo matrimonio dal primo è nata una figlia che oggi ha 16 anni. Con la prima moglie non ha più alcun tipo di rapporto seppur descriva i primi momenti della loro relazione come molto intensi e contraddistinti da una grande attrazione fisica.
Della attuale moglie si definisce “innamorato, ma…Penso che di una persona non ci si possa mai innamorare completamente, credo che quando ti lasci con qualcuno certe cose te le perdi per sempre e continuano a mancarti. Con la mia attuale moglie sto bene, lei mi ha aiutato tanto. Anzi ci siamo aiutati tanto. E il rapporto si è molto rafforzato nei momenti di difficoltà. Ma, se devo essere sincero, io credo che potenzialmente potrei innamorarmi ogni giorno di una ragazza diversa. Non so, magari mi colpiscono gli occhi, l’intelligenza. A volte a lavoro mi è capitato di confrontarmi con donne con cui c’era un certo feeling. Io sono innamorato di mia moglie, ma è successo che mi sono trovato in situazioni in cui un particolare di una donna mi ha lasciato senza fiato. Anche in passato mi succedeva. Ad esempio, quando ero all’Università, ricordo che c’era una ragazza disabile, con le stampelle, che aveva delle mani bellissime. Dalle mani secondo me si capiscono tante cose. Ripenso alle foto di mia madre ragazza, era meravigliosa e aveva delle mani stupende, molto curate. Adele, mia moglie, invece è molto poco attenta alla cura della sua persona e le sue mani non sono poi così belle. Ma a me va bene così, è molto carina anche struccata, anzi è goffa quando si trucca, sembra che abbia indossato una maschera. Questa estate poi mi capitava spesso di andare in una pizzeria in cui c’era una ragazza carinissima con cui ci scherzavo, mi divertivo, ma niente di che. Anzi poi, quando tornavo a casa, con Adele ne parlavamo e ne ridevamo insieme, infondo anche a lei piacciono gli attori delle Fiction che trasmettono in tv. Però era bello quando andavo in quella pizzeria”… Alcuni secondi di silenzio… “Ah, una cosa strana, una volta rimasi così colpito da una ragazza che aveva lo strabismo di Venere. Mah! Chissà che vuol dire!”.

In questo primo frammento di seduta è possibile alcuni aspetti interessanti. Filippo si dice innamorato, ma ritrova nel rapporto con Adele un equilibrio apparentemente diverso da quello che aveva con le donne precedenti della sua vita.
La prima moglie la descrive come molto curata e, in una seduta precedente, poneva l’accento sul fatto che non poteva uscire di casa ad esempio senza essere molto profumata e senza apparire come impeccabile agli occhi degli altri.
La madre, che ha concepito Filippo quando aveva appena venti anni, è sempre stata presentata come una donna bellissima, molto curata, affascinante, ma priva di regole per sé e per i figli. Una madre da ammirare ma che non l’ha mai davvero visto.
Adele gli dà sicurezza nel suo ruolo di chi è capace di prendersi cura dell’altro (ma non di sé) e, al tempo stesso, di chi non vuole ripetere più gli stessi errori. Ma questo per lo più ad un livello superficiale in quanto con l’attuale moglie non appare che ci siano spazi di condivisione emotiva profonda se non per la cura del figlio piccolo: Filippo parla di feeling a lavoro con altre donne, sintonia che, lui ingegnere e lei commessa, non riescono a trovare tra loro.
Interessante anche la sua attrazione verso la donna con le stampelle e quella con lo strabismo di Venere: pur essendo entrambe situazioni in cui Filippo rimane colpito da imperfezioni dell’altro, mentre per la ragazza con le stampelle torna la dimensione della cura e della responsabilità verso l’altro in cui Filippo è molto competente, per la ragazza con lo strabismo una associazione, più a livello analitico, conduce allo sguardo della madre non rassicurante e soprattutto non centrato sui bisogni di rispecchiamento del figlio.
A questa ultima associazione può legarsi anche la frase iniziale quando dice “Penso che di una persona non ci si possa mai innamorare completamente, credo che quando ti lasci con qualcuno certe cose te le perdi per sempre e continuano a mancarti”: vediamo come le riflessioni di Filippo ci riportino alla fase dello specchio e in particolare a quello che Olievenstein ha chiamato “specchio infranto”, uno specchio che riflette una immagine piena di spazi vuoti, di mancanze in cui la madre proietta sul bambino il proprio bisogno di riconoscimento negando l’individualità, distinta e separata, del figlio.

Al racconto di Filippo si lega Mauro che non gioca d’azzardo da più di sei mesi al momento di questo segmento clinico.
È fidanzato con una ragazza, Alessia, da circa 3 anni alla quale si dice molto legato. Si sono messi insieme in un periodo per lui complesso in cui era da poco morto il  padre e si acuiva il problema del gioco. Con la compagna, tuttavia, non ha mai affrontato la questione, il sostegno principale l’ha avuto dal fratello più piccolo.
Si lega ad Alessia perché rimane colpito dalla sua fragilità, dalla sua incapacità a prendere decisioni importanti (in quel momento principalmente legati alla precarietà professionale e affettiva che stava vivendo la ragazza). L’equilibrio della coppia si fonda sulla capacità di Mauro di prendersi cura di Alessia e di farla sentire protetta. Si conoscono in un corso di tango a cui Mauro si era iscritto per concedersi una parentesi di svago dentro una vita che definiva pressante e monotona. Alessia rimane colpita presto dalla capacità di Mauro, 10 anni più grande, di infonderle “serenità, stabilità, protezione” e presto si mettono insieme condividendo la passione crescente per il tango. In questa prima fase Mauro si descrive contento e soddisfatto, ma mai davvero innamorato, emozionato. Si riconosce competente nel suo prendersi cura dell’altro, ma continua a giocare in gran segreto, continua a mantenere una vita parallela, nascosta e sofferente, che non riesce (o non vuole?) condividere con l’altro per non appesantirlo. Mauro riesce a parlare con la compagna del suo problema di dipendenza solo dopo aver intrapreso il percorso di cura presso il nostro Serd. Al servizio arriva attraverso il fratello che appare come l’unica persona che abbia compreso la sofferenza di Mauro e che si mostra molto preoccupato degli ingenti debiti del fratello.
Dall’inizio del percorso terapeutico, sembra che Mauro abbia iniziato a mettersi al centro della propria vita, non giocando più e portando avanti con Alessia un rapporto che appare gratificante se non altro contenitivo.
Tuttavia, partendo dalle riflessioni di Filippo, Mauro dice:
“È normale quello che dice Filippo, dopo tanto tempo il desiderio cala ed è naturale cercare qualcosa in più! Cercare un nuovo modo di giocare per stare insieme, per essere complici. Io sento che sto iniziando a stufarmi di Alessia. Ora è diventata assistente del maestro di tango, io invece ho un po’ abbandonato, ci vado sempre meno. Mi sembra che le dà fastidio quando ci vado, come se fossi un peso. Parliamo poco e quando inizio a dirle che non sto bene nella coppia lei taglia il discorso, fa finta di niente. Ieri ad esempio ci siamo sentiti al telefono e quando le ho detto che l’indomani sarei andato alla scuola di tango si è arrabbiata, mi ha detto che lo faccio apposta per farle un dispetto, per invadere i suoi spazi. Io le ho detto che facevo come mi pareva perché in quella scuola mi sono iscritto prima di lei e Alessia, che già era nervosa per questioni sue lavorative, mi ha rinfacciato che sono un egoista e che non sono attento ai suoi problemi. A quel punto mi sono arrabbiato, non ci ho visto più e le ho chiuso il 9 telefono in faccia. Dopo circa un’ora mi ha mandato un sms mandandomi a quel paese. Non ho risposto, sono andato a letto triste, pieno di dubbi e di inquietudine. Non ho dormito bene perché mi veniva sempre in mente lei. Filippo ha ragione. Anche a me piace flirtare, così, per poco. Una settimana fa siamo andati ad una festa e c’era una donna molto affascinante seduta sul divano. In un momento in cui Alessia era da un’altra parte mi sono avvicinato a questa donna e ho iniziato a chiacchierare, a scherzare su quanto fosse noiosa quella festa. Lei scherzava con me, mi sentivo attratto. Ma era una donna sposata e con un figlio. Poi Alessia mi ha visto e ha richiamato la mia attenzione per aiutarla a sistemare delle cose in cucina. Mi ha richiamato all’ordine! Ma non era stato niente di che, ero attratto per farci due chiacchiere, penso sia normale, è un appagamento personale. Comunque oggi ci vado lo stesso a scuola di tango, voglio proprio vedere come reagisce!”.
Viene proposto a Mauro di giocare la telefonata con Alessia. Sceglie Filippo per interpretare la fidanzata.


Gioco.

Nel suo ruolo Mauro appare tutt’altro che arrabbiato. È quasi comprensivo e dispiaciuto di aver detto alla compagna che sarebbe andato alla scuola di tango sapendo di darle un dispiacere. Soprattutto perché già nervosa per i problemi a lavoro. Anche la chiusura della telefonata risulta meno brusca di come l’aveva descritta nella parte narrata.
È nel ruolo di Alessia che tira fuori l’aggressività rimarcando al fidanzato (rappresentato da Filippo) il suo egoismo e la sua incapacità di comprendere il momento difficile che sta vivendo per le difficoltà professionali.
Nell’a-solo Mauro, dopo alcuni secondi di grande difficoltà a mantenere in prima persona la posizione della ragazza, fa dire ad Alessia: “Non ce la faccio più, ho bisogno di spazi solo miei, lo deve capire! Non voglio avere tutti questi occhi addosso! Basta, ora me ne vado a dormire e penso solo alle cose che devo risolvere. Mauro, ora, me lo devo scordare!”
Finito il gioco Franco sottolinea le differenze tra il racconto narrato dal posto e quello rappresentato e chiedendo Mauro come mai voglia ancora starci insieme?
Filippo, che dice di essersi trovato meglio nel ruolo di Alessia perché maggiormente libera di esprimere i propri capricci, evidenzia come la ragazza ha tante certezze, mentre Mauro nemmeno una: “Nel ruolo di Mauro cercavo continuamente conferme, rassicurazioni che non venivano mai e mi sentivo molto arrabbiato per questo!”.
Mauro riferisce di essersi trovato meglio a rappresentare il proprio ruolo e aggiunge: “io, al posto di Alessia, prenderei la palla al volo per lasciarmi. Mi chiedo: ma io sono uno che le piace?”.
Proviamo ad analizzare i diversi punti significativi emersi dall’incontro, in particolare dalla scena giocata.
Subito prima di essere chiamato a rappresentare la scena Mauro dice: “Voglio proprio vedere come reagisce!”. Questa frase credo evidenzi il suo funzionamento di delega rispetto alle scelte, alla possibilità di prendere una decisione, di legittimare una propria posizione. E soprattutto ci mostra come il paziente si muova in base alle risposte dell’altro.
Vediamo ad esempio come esprime la sua aggressività: mentre nella scena narrata si descrive particolarmente infastidito dall’atteggiamento della ragazza, nel gioco si mostra preoccupato di non arrecare troppo disturbo ad Alessia. Anzi è proprio quando rappresenta la fidanzata che riesce a tirare fuori la rabbia rivolgendola verso il compagno, verso se stesso. Mauro racconta spesso al gruppo che vuole lasciare Alessia, che non sopporta più il fatto di non sentirsi visto per quello che è, di non sentirsi riconosciuto anche nelle sue problematicità, ma nell’a-solo è Alessia che dice “non ce la faccio più, ho bisogno dei miei spazi e lui lo deve capire!”.
Quanto Mauro è spaventato dal fatto di perdere tutto prendendo una decisione, in cui si mette al centro senza assecondare i “capricci della ragazza” (così definiti da Filippo)?
Quanto le decisioni di Mauro possono allontanare Alessia dandole la consapevolezza che Mauro non merita più il suo amore, le sue attenzioni? Ma di quali attenzioni stiamo parlando? Quanto spazio il paziente riesce a dedicare alla considerazione di questi aspetti? Credo poco, anche perché, attraverso la dissociazione, i pensieri si spostano sulla ricerca di nuove emozioni in situazioni apparentemente impossibili, ambivalenti, ad alto livello di rischio. Flirtare con una donna sposata e con un figlio mentre Alessia è semplicemente distratta in un’altra stanza cos’è se non ripetere la stessa dinamica che in passato l’ha condotto a giocare d’azzardo in modo compulsivo? Una ricerca frenetica, circoscritta in un lasso di tempo brevissimo, in cui magicamente Mauro possa recuperare tutto ciò che ha perso o che continuamente ha paura di perdere (la garanzia dell’oggetto d’amore). Nell’a-solo dice pure “non voglio avere tutti questi occhi addosso!”. Ma di quali occhi stiamo parlando e che giudizio esprimono?

Un paio di sedute successive Mauro dirà:
“ho provato a parlare con Alessia, ma le cose non cambiano. Lei continua a fare finta di niente. Nel frattempo un paio di giorni fa sono andato ad una festa con un amico senza di lei e ho 11 conosciuto una ragazza che va anche lei a scuola di tango. Mi intriga parecchio. Lei ha una storia con un uomo sposato e mi ha detto che tutti la guarda male e la ritenevano una “rovina famiglie”, ma a me non è importato. Abbiamo deciso di uscire insieme domani sera. Sono contento, non ho un obiettivo particolare, voglio solo mettermi in gioco e riuscire a fare il “figo” come facevo prima di conoscere Alessia. L’obiettivo è passare una bella serata, se poi ci scappa il dopo sera… Lo so, è una cosa scorretta… ma ho bisogno di vedere se riesco ancora a riscoprirmi simpatico, capace di attrarre una ragazza. Ho bisogno di riattivare delle cose che non ho più con Alessia. Poi vediamo come vanno le cose!”.

Il terapeuta chiede a Mauro: “Se ha un desiderio per quest’altra ragazza quale è la ragione per cui continua a stare con Alessia?”
Mauro risponde: “Io spero tanto che le cose possano cambiare, in questo periodo mi sono dedicato tanto a lei. Ma non siamo complici in niente, neanche quando organizziamo una cena: io voglio preparare una cosa, lei un’altra, e puntualmente vince lei! Ho provato a parlarle tante volte, ma con lei certi discorsi sono impossibili, non dice niente, fa finta di nulla e si ricomincia la solita routine come se nulla fosse. A me manca essere felice, ma dovrebbe mancare anche a lei. È sempre tutta una fatica, anche la vita sessuale va male…e allora ciao!”. Mauro vive una situazione relazionale conflittuale, non appagante, che lo mantiene fermo in un equilibrio privo di emozioni senza mettersi nella condizione di prendere delle responsabilità o esprimere decisioni. Mauro ha storicamente grande difficoltà a stare nei conflitti per la paura di farsi male e, soprattutto, di fare male all’altro tanto da perderlo. Pertanto non cerca un confronto, ma si mette in situazioni del tutto simili al gioco d’azzardo patologico (uscire segretamente con una ragazza che già esce con un uomo sposato).
La similitudine la possiamo riscontrare anche dalla frase: “intanto mi metto in gioco, poi vediamo come va!”, un’azione che potenzialmente potrebbe metterlo nella condizione di perdere il rapporto con Alessia. Mauro, infine, appare riuscire a mantenere il suo equilibrio solo quando si prende cura dell’altro, ma rimane completamente spiazzato e senza punti di riferimento quando all’altro sembra non occorrano più, allo stesso modo di prima, le sue attenzioni tanto che alla fine dell’incontro si chiede “ma io sono uno che le piace?”.

Concludendo credo che il lavoro psicoterapeutico dovrebbe puntare a trasformare l’affermazione, “la felicità per il piacere” in “ la felicità, per piacere!”.

¹Si ringraziano per la collaborazione il dott. Francesco Salvatori e la dott.ssa Dina Pero


BIBLIOGRAFIA
Croce E. B. (1990). Il volo della farfalla. Roma, Borla.
Croce E. B. (1985). Acting out e gioco in psicodramma analitico. Roma, Borla.
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Lemoine E., Lemoine P. (1972). Lo Psicodramma. Tr. It. Milano, Feltrinelli, 1973.
Mazzocchi S., Vite d’azzardo.Storie vere di giocatori estremi, Sperling & Kupfer, Milano, 2002
Montecchi F. (2011). Dal bambino minaccioso al bambino minacciato. Gli abusi e la violenza in famiglia: prevenzione, rilevamento e trattamento. Roma, Franco Angeli.
Olievenstein C. (1984). Il destino del tossicomane. Roma, Borla.
Recalcati M. l'uomo senza inconscio, Casa Editrice: Raffaello Cortina Editore , 2010


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