Introduzione

del Dott. Nicola Basile

“La verità del significante è l’erede dell’incontro, mai sereno, con il limite e con il tentativo immaginario di aggirarlo fantasticamente, cioè, per l’appunto, via significante. La verità che ne risulta è il resto di quest’operazione, la dimostrazione dell’umana incompiutezza. Essa si situa sul bordo del dicibile, appare e scompare in funzione delle intermittenze che l’inconscio presenta. È una verità che circola nelle pieghe della parola, velata e non svelata come i fatti o rivelata come nei libri religiosi. Il significante, nell’accezione Lacaniana del termine, è la forma che è propria alla rappresentazione. Non il segno, dunque, né la lettera. Ne riprendiamo la formula classica: un significante è ciò che rappresenta un soggetto per un altro significante. Una rappresentazione, insomma, rinvia a un’altra, istituendo una catena. La nascita della psicoanalisi, a partire dall’approccio freudiano all’isteria, scaturisce proprio da questa rivoluzione. Aver posto al suo centro una politica volta a mettere in valore la logica del significante contro l’evidenza del segno o l’ossessione della letteralità che non concedevano alla soggettività alcuna opportunità per farsi strada.”

http://sipsarivista.org/2017/12/15/angelo-villa-la-parola-placebo/

 

Mi piacerebbe augurare buona vita a ciascun lettore delle nostre pagine, augurarlo di persona ma ciò ovviamente non sarà. Così mi piace raccontargli cosa abbiamo a lui dedicato in questo secondo numero di “Scritture e riflessioni”. A partire da questo numero cerchiamodi restituire al lettore almeno una parte dell’elaborazione teorica che alterniamo alla discussione dei casi clinici. Ciascuno degli scrittori ha preso un argomento di quella discussione e lo ha rielaborato liberamente, al fine di offrire spunti di riflessione.

Uno dei focus di questo numero lo abbiamo centrato sul compito dell’osservazione nel contesto della discussione di casi clinici, siano essi di “supervisione”, termine che prevede un qualcuno più in alto di altri, sia di “condivisione”, con cui si immagina una parità tra professionisti, sia di “polivisione” vocabolo che noi preferiamo perché assume che nessuna visione può essere totalizzante o vera contro un’altra nella clinica dell’incontro. La questione dei vocaboli è all’origine della riflessione di Sarah Salvatore dal titolo “Dalla sensibilizzazione all’ascolto al gruppo di controllo: riflessioni sul processo di supervisione in psicodramma analitico
La “polivisione”, termine che abbiamo adottato come transitorio più di cinque anni or sono, ci sembra ancora insostituibile in quanto richiama la pluralità del coro, coro che nella tragedia greca vede meglio e prima dei personaggi che si contendono la verità. Ma il nome fa questione e l’autrice ricerca le origini di questa ricerca.

In “Polivisione, problema dell’uno e dell’atto mancato” lo scrivente Nicola Basile rintraccia alcuni nodi della psicoanalisi lacaniana che interessano la cornice teorica della discussione dei casi clinici in un setting in cui il soggetto è interrogato dal gioco drammatico o role-playing, condotto da uno psicoanalista e psicodrammatista.
“Un'esperienza breve di ROLE-PLAYING ed alcune riflessioni” di Marina Pagliarini e Annalisa Pascucci ci portano dentro il racconto di come lo psicodramma analitico viene utilizzato in contesti di elaborazione della prassi clinica nelle istituzioni pubbliche.

In questo numero inoltre è l’osservazione stessa che viene analizzata. L’osservazione di un collega psicodrammatista e esperto accompagna tutte le fasi del nostro lavoro di polivisione. In questo numero ci occupiamo di questo delicatissimo strumento che vede un partecipante, psicodrammatista analitico esperto, in posizione silente e esterna al gruppo, durante tutto il tempo di lavoro, circa due ore. L’argomento è trattato nel “Il punto dell'osservazione” di Giuseppe Preziosi.
L’esperienza dell’osservazione nella propria formazione di psicoterapeuta è offerta in “L’osservazione come strumento della conoscenza” di Erika Mobilio.

Mi permetto qui di anticipare al lettore che la questione dell’osservazione nei settings di gruppo, siano essi dedicati alla domanda di cura individuale, sia in quelli dove professionisti interrogano il loro desiderio di guarigione, è una questione fondamentale. O meglio è uno strumento che i professionisti che si dedicano alla relazione di cura devono maneggiare con molta cautela e un buon periodo di training. L’osservazione può essere paragonata a quello straordinario momento della comunicazione umana che è stato il
pittogramma. Ciascuno ha idea di cosa sono i pittogrammi perché sono l’esempio del primo modo di comunicare inventato dall’uomo per permettere all’altro di sopportare la sua stessa assenza.

Si sa ormai da tempo che i pittogrammi nulla hanno a che vedere con dei segnali di avvertimento come: “qui si caccia”. È facile intuire che il pittore non sapeva chi avrebbe visto la sua opera e soprattutto quanto tempo dopo la sua realizzazione. I pittogrammi non indicano informazioni né sulla caccia né su pericoli da evitare. Dato il numero della popolazione esistente in quel momento sul nostro pianeta, era assai improbabile che il pittore avrebbe incontrato il fruitore della sua opera in un tempo utile perché l’informazione servisse. La questione è che l’essere umano ha sentito la necessità di lasciare un segno della sua presenza a un altro assente, affinché entrambi potessero immaginare l’assenza e non esserne schiacciati. Sia il pittore, che disegnava nell’attesa che un altro essere umano si soffermasse sulla opera e quindi lo pensasse, sia il fruitore, che finalmente aveva la prova di non essere solo sul pianeta, potevano incontrare colui che era assente ciascuno dentro di sé.

In qualche modo abbiamo reinventato la questione con la messaggistica. Come mai si scrive quasi più che parlare al telefono? Lo si fa per non sentirsi soli, per restare in attesa di un messaggio, per immaginare l’altro che legge il nostro messaggio e quindi superare le barriere di tempo e spazio. Poiché i messaggi arrivano e partono in modo ridondante, viene riempito ogni frazione di spazio e tempo di frammenti degli altri, frammentando in buona sostanza ogni soggetto che non sa più né aspettare né essere solo. Origine forse dei principali disturbi di relazione oggi tra adulti e bambini.

Il povero signore del neolitico non poteva riempirsi di messaggi dell’altro. Poteva però pensare che se l’altro avesse potuto leggere le sue gesta, lui e l’altro si sarebbero incontrati, mettendo in comunicazione le loro assenze. Il disegno stabilisce l’assenza del disegnatore a favore della libertà di chi fruirà dell’opera. L’osservatore ogni volta che il gruppo si scioglie, affida a ciascun partecipante, il disegno dell’altro. Cosa ne farà l’uno del disegno dell’altro? Egli sarà libero di farne l’uso migliore che riterrà opportuno: incontrerà quelle figure nel suo lavoro clinico, coscientemente o spesso incoscientemente; quelle figure saranno una cosmogonia di tracciati immaginari e simbolici da utilizzare come nella “via dei canti”, mappa geografica del mondo tramandata attraverso il canto dagli aborigeni australiani.

È lo stesso processo o disegno dell’incontro e della separazione tra un adulto e un minore nel setting terapeutico o riabilitativo, avvenuto in un tempo passato, per noi gruppo di polivisione. Noi non facciamo altro che ripetere il rito dell’incontro e quello della separazione per raccogliere i messaggi dell’uno e dell’altro assenti. Affinché un messaggio ci sia, ci deve essere qualcuno che lo invia e qualcuno che lo raccoglie. I due se non riescono a distanziarsi un poco, non avranno necessità di parlare, come spesso ci accade di verificare nelle famiglie che a noi si rivolgono. Il bambino che entra nelle nostre stanze non può che domandarsi come mai i genitori ce lo abbiano spedito e come mai se ne vadano, dovendo ancora una volta vivere la loro assenza. Inoltre, incontrerà un signore o una signora, qualche manciata di minuti, per non incontrarlo più tutto il resto della settimana.
Quindi non facciamo altro che promettere ai bambini un’assenza affinché ci sia un incontro vitale che modifichi il passato per proiettarlo nel presente. Ma dell’assenza dobbiamo essere ottimi custodi e cercare di vitalizzarla. Per questo ci riuniamo una volta al mese per cercare di leggere i pittogrammi lasciati dal lavoro clinico con i minori.

Cosa si porta appresso dal setting riabilitativo o psicoterapeutico il bambino o quel bambino che è divenuto adulto nelle nostre stanze? Un disegno, direi.
L’immagine del disegno mette infine in collegamento la psicoterapia, la neuropsichiatria infantile, la terapia neuro motoria, riabilitazione e la psicoanalisi[1]. Il messaggero di questo incontro Giuseppe Preziosi lo coglie nell’osservazione.

Infine in “Il Terapista della Neuro e Psicomotricità dell'Età Evolutiva e la Polivisione” di Giacomo Brandi l’esperienza della polivisione è vista da chi incontra i minori come Terapista della Neuro e Psicomotricità dell’età evolutiva e deve integrare il suo progetto di cura tenendo conto delle domande di diversi attori: la famiglia, il bambino con il progetto terapeutico.

Buona lettura


[1] In merito alla neuropsichiatria direi che non riesce ancora a disegnare poiché impegnata a scrivere diagnosi che certifichino un futuro, se non si allea a qualcun altro. La neuropsichiatria con la diagnosi ipostatizza il disegno, la psicoanalisi immagina un messaggio tra due sulla base dell’assenza, la riabilitazione guarda ora all’una ora all’altra.