Polivisione, problema dell’uno e dell’atto mancato.

del Dott. Nicola Basile

“In altre parole è il gioco che è l'universale e [...] la psicoanalisi si è sviluppata
come una forma altamente specializzata di gioco al servizio della comunicazione
con sé stessi e con gli altri».
La culla di spago di Claudio Neri[1]

 

Proverò a descrivere la questione della supervisione utilizzando il bellissimo testo a cura di Elena Croce “Funzione analitica e formazione alla psicoterapia di gruppo”[2].

Non è certo mia intenzione arruolare alcuno alla psicoanalisi ma alcune frasi di questo libro degli anni ’80 mi sono sembrate particolarmente utili anche a chi pensa di non pensare alla psicoanalisi
Nel penultimo incontro avevamo individuato come fosse in atto uno slittamento verso una lettura sociologica dell’incontro tra il professionista e la clinica e come questo non troppo meditato movimento, fosse assai rassicurante per tutti. Avevamo anche sottolineato come utilizzare un’ottica che spiegasse ogni accadimento come fenomeno razionalizzabile, lasciasse contenti tutti del tempo dedicato all’incontro di supervisione

Eppure un dubbio è emerso quando, trovandoci nel vuoto della clinica, abbiamo lasciato che il pensiero si soffermasse sulla direzione che i nostri incontri avevano preso. Ci siamo così domandati se il lavoro della neuropsichiatria infantile e quello della rielaborazione dell’incontro attraverso il gioco di ruolo in gruppo di psicodramma avessero il solo compito di lasciare che le “cose” andassero proprio tutte al loro posto.

Credo che il luogo dove nulla vada mai veramente al suo posto è l’incontro clinico in cui c’è chi domanda di regolare la ripetizione, ripetizione di sintomo, ripetizione di errore, ripetizione di stigma e chi promette una soluzione in tal senso.

“(…) per chi lavora nell’ambito dello psicodramma analitico, i momenti più fecondi sono quelli in cui si riconosce che l’incontro è mancato e che niente garantisce che l’affetto stimolato nel <<destinatario>> dalla percezione di uno o più significanti che provengono dall’altro o dagli altri, sia proprio il medesimo che si è incanalato in questi significanti a partire dal mittente o dai mittenti. E ciò in quanto si ritiene che una fraternità in grado di fare i conti con la castrazione simbolica abbia minori probabilità di essere velleitaria e illusoria”[3]

Queste righe per dire che il lavoro del gioco di ruolo non ha il compito di far sentire più simili l’uno all’altro, il bambino al terapista, il genitore allo psicoterapeuta, il docente al neuropsichiatra, ma semmai di evidenziare la sordità dell’uno verso l’altro. Dove l’uno non può che essere il professionista e l’altro colui che domanda. Se nella notte tutte le vacche sono nere, direi che è molto probabile che alcuno distinguerà le sue. Se tutti i nomi sono eguali agli altri, ogni diagnosi rischia di essere soltanto un esercizio linguistico, magari ben fatto, ma di poco valore per la vita del minore e della sua famiglia. “Non si tratta perciò di un <<esercizio>> nel senso di assimilazione attraverso la ripetizione di schemi di intervento (….) ma di un altro modo di esporre se stessi e le proprie faglie all’analisi degli altri (…)[4]

Anche se l’autrice del testo si rivolge ad altri analisti o a futuri analisti, e la qualcosa non riguarda il setting che cerco di descrivere in queste righe, la questione dell’esercizio rimane. Se l’uno e l’altro sono eguali, non solo non c’è riconoscimento ma c’è soltanto negazione della diversità. La diversità è data dal trovare un qualche cosa che manca all’altro e che non trova spiegazione in noi. Paradossalmente questa cosa è più nostra che dell’altro, purché non si definisca l’incontro come incontro tra eguali. Se c’è una differenza, l’uno dall’altro, allora lo spazio della mancanza si fa spazio per domanda e ricerca.La ricerca richiede la definizione di uno spazio di libertà culturale che nel lavoro di cura dell’altro si garantisce offrendo un contesto in cui esso trovi parola. Una parola ovviamente che non trascenda dallo studio ma che utilizzi la teoria per dare parola al presente e a tutte le sue incertezze.

Il concetto di “sensibilizzazione all’ascolto”  è solo uno dei vocaboli che hanno significato l’attività della supervisione e dell’osservazione, come scrive Sarah Salvatore su questo sito[5]. Elena Croce dichiara che <<l’urgenza di suscitare in qualche modo una discussione su quello che andiamo facendo, ci spinge a scavalcare l’ingorgo teminologico e a rimandare l’occasione di meditare ancora sui problemi di denominazione>>[6] Che farne della sensibilizzazione all’ascolto se poi il giorno dopo devo stabilire delle accurate strategie riabilitative o fare delle scelte strategiche nella seduta di psicoterapia?
Le domande poste sopra risolverebbero in sé la questione dell’incontro come spazio dove far veicolare la mancanza dell’omologazione dell’uno nell’altro.

In un campo di battaglia i soldati sono tutti egualmente pronti a morire e chi li comanda non li distingue. Eppure gli strateghi della dinastia Ching affidavano parte della loro sorte all’alea, al gioco, probabilmente per allenarsi a non definire mai del tutto le proprie scelte e per farlo interrogavano l’altro attraverso codici numerici binari da interpretare.[7]  Così la battaglia non era semplicemente un tutti contro l’altro ma l’uno contro l’altro, in quanto i due elementi del contendere sono irriducibili a essere definiti una volta per tutte. Il libro dei Ching è un campo di battaglia che ci aspetta il giorno dopo, è un sogno come quello di Costantino prima della battaglia contro Massenzio, in cui il dormiente elabora la strategia grazie a un sogno e soprattutto grazie a coloro che vegliano sul suo sogno prima della battaglia di ponte Milvio.

Lo scopo degli incontri di polivisione sono ben riassunti da questa metafora: chi presenta il suo incontro con l’altro, attende di poter sognare, vegliato da altri che conducano il suono indistinguibile del desiderio verso la parola. In base al sogno Costantino inventa una strategia militare che solo l’altro Costantino, il sognatore, poteva elaborare, essendo in numero e forze nettamente inferiore a Massenzio.

 La questione dell’osservazione

“ Il secondo aspetto della funzione di supervisione, ossia l’<<osservazione>>, va inteso in un senso un po’ diverso da quello usuale. Infatti tale compito viene esplicato da colui che se lo assume in una determinata seduta da un luogo che si colloca materialmente e, soprattutto, idealmente, al di fuori della cerchia dei partecipanti, in cui avvengono gli scambi verbali e il gioco. Da questo luogo ideale l’osservatore segue in silenzio l’andamento della seduta e se ha qualche cosa da dire parla alla fine  della stessa e non in modo da farne un riassunto o una recensione, e tanto meno in maniera da trarne una o più conclusioni, ma piuttosto in modo da sottolineare i quesiti che rimangono aperti e i loro possibili legami.”[8]

Queste righe le conosciamo bene, sono anni che vediamo l’osservatore sostare in un posto separato dagli altri, un posto direi di colui che veglia e permette al sognante di tornare sul campo della vita.
Sta lì in modo che la sua parola rintracci quelle ripetizioni che definiscono l’armonia del testo, o l’ordito del tessuto, sempre travolte dalla melodia o dalla trama che la fanno da padrona. Ciò che l’osservatore sottolinea non è ciò che viene detto ma semmai quel che è stato lasciato alla dimenticanza e alla rimozione utili per non sentirsi uno diverso dall’altro. In una folla l’uno è cancellato. Noi al contrario lavoriamo per favorire la precaria esistenza di quell’uno.
“Attorno a queste sottolineature ciascuno potrà sentirsi stimolato a dibattere dentro di sé o discutendone nelle che ritenga più appropriate, magari anche attraverso letture o lavoro teorico, qualche cosa di ciò che manca affinché il proprio operare cambi il livello di qualità”[9]

In questo contesto metodologico di utilizzo dello psicodramma analitico da cinque anni abbiamo poi aggiunto una riflessione scritta tra incontro e incontro. Nella storia della clinica psicoanalitica questo metodo è presente e porta nomi diversi che hanno anche scopi diversi. Nel nostro procedere la scrittura che fa legame tra incontro e incontro, è una rilettura dell’osservazione affinché essa venga articolata in domande cliniche, viste alla luce della psicoanalisi.
“Quanto l’animatore, invece si può dire, che esso ha, nel corso della seduta, una funzione più attiva visto e considerato che, anche materialmente, non si colloca al di fuori della cerchia dei presenti e l’ascolto del materiale emergente via via può portarlo a sottolineature o a interventi che, a differenza di quanto accade all’osservatore, mirano a porre in evidenza nessi e differenze man mano che i discorsi del gruppo si snodano. E soprattutto è lui a cogliere la necessità del gioco da proporre”[10]

Che differenza rintracciamo tra la prima parte del lavoro di polivisione e la seconda?
È evidente che nella prima ora prevale la certezza del segno medico e della casistica fenomenologica dell’evoluzione del disturbo. In pratica ci avventuriamo a seguire un discorso che l’altro ha tracciato e che porta a evidenze diagnostiche. Siamo nel regime della luce, direbbe Gilbert Durand[11]

In tale contesto soggetto e oggetto della cura sono talmente ben distinti che nemmeno si sfiorano. Potremmo dire che si rischia una temporanea cecità bianca[12], i libri, il sapere medico, mettono tutto e tutti al loro posto, con un’autorità che non può avere contradditorio.

Eppure questo tempo dedicato alla chiarezza, apre indubbiamente alla soggettivazione della scienza attraverso la messa in gioco della certezza. L’animatore si è posto cosa non tornasse ai dati e alla loro interpretazione.  In altre parole potrà Costantino numericamente inferiore a Massenzio vincere sulle sponde del Tevere all’altezza di Ponte Milvio? Detto così, certamente no. E certamente non ce la può fare il bambino con diagnosi di disturbo dell’attenzione o l’adolescente con esordio psicotico. Eppure quel uomo e quella donna che si affannano a incontrarli, anche per il loro riconoscimento narcisistico, non intendono sottrarsi all’incontro. E allora cosa li muove e verso quale direzione. L’animatore cerca con ciascuno quel che non poteva essere detto alla luce della scienza. È necessario abbassare la luce, fare penombra, favorire l’intimità del ventre della balena, entrare nel sogno, solo un attimo affinché nel cambio di ruolo, Pinocchio incontri Geppetto, la madre sia la propria posizione di madre, l’adolescente sia quel adolescente da cui ciascuno attinge immense risorse creative. È un attimo garantito dallo sguardo benevolo del piccolo gruppo di professionisti che circoscrive lo spazio tra un dentro e un fuori, precari e indispensabili.

“Il lavoro che si tenta di fare qui (…) consiste appunto nel far si che il trauma dell’impatto con il materiale che emerge nel corso del rapporto terapeutico, da occasione di rimozione, di inibizione o magari di destrutturazione, si recuperi, per quanto possibile, come momento di rinnovamento e riscoperta delle proprie risorse di cui momentaneamente si è perduto la disponibilità”[13]

Torno al titolo per concludere: affinché il nostro lavoro non si perda nella certezza della definizione sociologica dell’evento, è necessario ammettere che tra la scienza e il soggetto c’è uno spazio in cui il soggetto, ciascuno di noi, sente non definito ma da cui è espropriato. Quello spazio non è della scienza ma non è nemmeno utilizzabile dall’uomo, dalla donna che vorrebbero una soluzione allo smacco di non poter risolvere l’impasse, il dolore, la ripetizione tossica. I nostri incontri non possono essere definiti di supervisione perché assieme cerchiamo di dare parola a ciò che parola non ha ma trova narrazione e vita altrove.

Un giorno il Gorilla Grigio delle Savane interruppe una storia:
«Di', Pastore, sai che esiste un'altra Africa, un'Africa Verde con
alberi dappertutto, alti e folti come nuvole? Ho un cugino laggiù, un costolone dal cranio a punta».
Un'Africa Verde? Non c'era da crederci troppo. Ma raramente si osava contraddire il Gorilla Grigio delle Savane...
Strana, la vita... Ti parlano di una cosa che ignori completamente, qualcosa d'inimmaginabile, quasi impossibile da credere e appenate ne hanno parlato, ecco che la scopri a tua volta. L'Africa Verde...
Il ragazzo l'avrebbe conosciuta assai presto, l'Africa Verde![14]

BIBLIOGRAFIA:
[1] La culla di spago - Quadrangolo, IV, 1, 1979, pp. 27-32
[2] Elena Croce - Funzione analitica e formazione alla psicoterapia di gruppo – Borla -1985 - Italia
[3] Elena Croce - Funzione analitica e formazione alla psicoterapia di gruppo – Borla -1985 - Italia pag 11
[4]Elena Croce - Funzione analitica e formazione alla psicoterapia di gruppo – Borla -1985 - Italia pag 13
[5]  Sarah Salvatore - Dalla sensibilizzazione all’ascolto al gruppo di controllo: riflessioni sul processo di supervisione in psicodramma analitico – www.nuovipercorsi.org
[6] Elena Croce - Funzione analitica e formazione alla psicoterapia di gruppo – Borla -1985 - Italia – p. 40
[7]  G. Breccia - I 36 stratagemmi. Le regole segrete della guerra – Mondadori – 2016 - Italia
[8]  Elena Croce - Funzione analitica e formazione alla psicoterapia di gruppo – Borla -1985 - Italia – pag 41
[9]  Elena Croce - Funzione analitica e formazione alla psicoterapia di gruppo – Borla -1985 - Italia – pag 41
[10]  Elena Croce - Funzione analitica e formazione alla psicoterapia di gruppo – Borla -1985 - Italia – pag 41
[11]  G. Durand – Le Strutture antropologiche dell’immaginario – Dedalo ed. – 1972 - Bari
[12]  José Saramago – Cecità – Einaudi – 1996 - Italia
[13] Elena Croce - Funzione analitica e formazione alla psicoterapia di gruppo – Borla -1985 - Italia - pag. 47
[14] Pennac - L’occhio di lupo- 1993 - Salani ed. - Italia