Categoria: corpo

Là Qui Là/L’Aquila

 

 

Testi preparatori al seminario di Polivisione
a cura di
Silvia Brunelli - Milena Ciano - Alessandra Corridore - Dario Maggipinto - Marina Pagliarini

 

Il giorno 21 ottobre 2022, dalle h 19,00 alle 21,00, svolgeremo l’incontro on line,  per proseguire il lavoro del seminario di Polivisione con lo Psicodramma Analitico, stagione settembre 2022 - giugno 2023.

"Là Qui Là/L’Aquila" - dott.sse Silvia Brunelli e Milena Ciano

 

Il gruppo dopo un lungo periodo di lavoro online, si ritrova in presenza, a far incontrare i corpi, accolto in uno studio che era dispensa, dove i pixel dello schermo si fanno concreti e vividi: dispensa in cui ognuno ha accumulato e organizzato contenitori e contenuti che si personificano, offrendo la possibilità di assaporare il desiderio in gruppo, portando tra le sedie anche La presenza di chi non ha potuto esserci.
Il luogo dell'incontro è in una città ferita dal terremoto che ha scosso la sua quotidianità e, come noi, è in ricostruzione, diventando simbolo di come ciò che è attraversato dalla morte può tornare alla vita, alla ri-costruzione e all’accoglienza. Si parla di stanze, case, luoghi che possono diventare monumenti al dolore e alla mancanza; dove una richiesta impossibile ha tessuto un filo che non si può spezzare e lega alla morte chi è vivo.

Là Qui Là

Là è l’altrove sconosciuto dove arriva chi abbandona il mondo di Qui: il gruppo si interroga su quale Là possa esistere come cucitura che rimedia all’incomunicabilità di questi due luoghi: vivere pur ricordando, separarsi da ciò che non è più, per accogliere ciò che resta. Come si saluta chi parte da Qui?
Là è impensabile, inchioda all’impotenza e induce a pensare che stare, esserci, sostenere sia qualcosa che ha a che fare con l’azione concreta. È difficile perdere, lasciar andare, la presenza di un’assenza resta e può occupare tutto lo spazio disponibile, il vuoto diventa pieno: un blocco monolitico.                                      L’unico modo di aprire uno spiraglio sembra quello di sostare in quel vuoto, costruendo con l’altro la possibilità di abitarlo.

Sul sapere dell’altro

Un nome impronunciabile, una diagnosi-sentenza che non può essere ascoltata, afferma: “Io so per me e per l’altro”. Così non c’è spazio per il terzo che separa e costringe a riconoscere l’altro da un sapere che non può manipolare, liberando i due dalla dipendenza di chi sa e di chi deve abdicare. Nel gruppo si ascolta e si riflette sul ruolo di chi, in istituzione, media, separa e crea un contesto di cura che liberi il soggetto e gli permetta di essere riconosciuto nella sua disabilità ma anche nella sua possibilità.

 

 

L’Aquila

 

Come l’Aquila anche i pazienti incontrati nei giochi hanno crepe e fragilità da sostenere: si apre il cantiere della cura per costruire un nuovo modo del paziente di stare nel Qui. Il gruppo si interroga su come divenire nel lavoro di ricostruzione, sostegno transitorio per l’altro, sapendo riconoscere quando la struttura ha acquisito una sufficiente stabilità.

                                                                                         

"Corpi" - dott. Dario Maggipinto

Corpi che si incontrano, si osservano e si accolgono con un profondo senso di nostalgia, alla ricerca di uno spazio fisico dove presentificarsi. Roma? L’Aquila? Lo spazio è troppo grande? Troppo piccolo? Ci sarà un posto per me?Nel flusso onirico del gruppo, entra in scena l’immagine del monolite, un vuoto troppo pieno, granitico, come rappresentazione di un ignoto e inconoscibile alieno che diviene atto fondativo della “civiltà” del gruppo, matrice insatura ed elemento imprescindibile per stimolare la curiosità a trasformare le pulsioni in pensieri pensabili. Nel tentativo di digerire contenuti non pensabili, il corpo diviene di sale, si pietrifica dinanzi ad una colpa congelata, le assenze divengono omicidi. L’impensabilità in corpi totalmente disinvestiti dalla realtà è l’elemento principale della prima parte del lavoro del gruppo, come a voler rappresentare non solo i casi clinici riportati dai partecipanti, ma anche la profonda sensazione di corpi anestetizzati sperimentata durante gli incontri on-line. Emerge forte nel gruppo la rabbia o il profondo senso di impotenza dinanzi ad un corpo alienato in difesa dal corporeo morente. La-Qui-La, il luogo che ci ospita diviene suggeritore dei movimenti del gruppo, si interroga sull’ (aldi)La, sulla vita senza il corporeo, si glorifica nel Qui, nella presenza vitale del corpo che si incontra e investe con l’altro, si perde nel La, altra dimensione, alienata, dove il corpo diviene una prigione vivente di un mentale morente, fino ad arrivare alla negazione totale dei bisogni corporei e morire di fame: resto attaccato alla perdita.

Contrasto

Nella seconda parte del lavoro di gruppo, il flusso di pensiero si articola intorno al contrasto tra legami duali fusionali e la funzione dell’istituzione come “crudele” separatrice. In questo scenario, i partecipanti si sentono gravati dalla crudeltà di dover strappare figli da genitori troppo bisognosi o di dover definire attraverso una diagnosi di “schizofrenia” una individuazione, seppur patologica, tra figlia e madre, che porta quest’ultima a perdere l’oggetto delle proprie identificazioni e proiezioni, divenuto ormai troppo danneggiato. Si riconosce nell’istituzione oltre ad una funzione di cura, anche il suo esatto opposto, ossia un movimento di patologizzazione o di fallimento, creando uno scontro profondo tra la soggettività della persona in sofferenza e l’impotenza dell’operatore. Il gruppo rievoca la profonda ambivalenza della decisione istituzionale rispetto alle quarantene, improntate sull’urgenza di una protezione fisica dal virus, ma ignorando totalmente le conseguenze psicologiche ed emotive di una chiusura in spazi o famiglie tossiche. Il perturbante si alimenta nel movimento perverso dell’istituzione, in un cambio di rotta da funzione separatrice degli elementi famigliari a stimolatore di fusionalità in spazi già fin troppo piccoli. Dove si colloca l’operatore di cura? Il gruppo assolve alla funzione di contenitore del dilemma tra estrema fusionalità della “cura” e rischiosa disumanizzazione che genera disintegrazioni identitarie.

 

"Trattenere o lasciar andare?" - dott.ssa Alessandra Corridore

"La forza schiacciante dell'inconscio, l'aspetto divoratore e distruttore in cui e con cui esso può manifestarsi, è figurata come madre cattiva, che può essere la signora cruenta della morte e della peste, della fame o dell'inondazione, la forza dell'istinto o la dolcezza che trascina al disastro. Quale madre buona invece essa è la pienezza del mondo prodigo, la dispensatrice benefica di felicità e di vita, il suolo della natura che produce il nutrimento e la cornucopia del grembo che partorisce; è la bontà e la grazia della forza creativa originaria, che permette e dona quotidianamente redenzione e resurrezione, nuova vita e nuova nascita" (1).

LA-QUI-LA, qualcuno ha detto. E dov’è il “qui” e dov’è il “là”? Roma, L’Aquila, Bari…, l’appartamento o lo studio di ognuno quando ci si incontra da remoto in un luogo, che è un non-luogo, in cui giocare ed essere insieme simbolicamente? Al “desiderio della presenza” (cfr. introduzione alla Polivisione settembre 2022), in alcuni casi legata ad una conoscenza meramente virtuale, è seguita la presenza dei corpi, con tutta la loro potenza.

Gioco 1: analista con la sua paziente chiusa in casa con la promessa di essere fedele al marito morto, non vuole andare alla commemorazione

Pietra che ricorda e commemora la pratica della Sati al Meherangarh Fort di Jodhpur

La scena può essere amplificata riferendosi alla pratica della Sati, chiamata anche suttee, appartenente ad alcune comunità indù in cui una donna da poco vedova, volontariamente, drogata o con l’uso della forza, si suicida a causa della morte del marito. La forma più nota di sati è quando una donna brucia a morte sulla pira funebre del marito anche se esistono altre forme, tra cui l’essere sepolta viva con il cadavere del marito e l’annegamento.

Il termine sati è derivato dal nome della dea Sati, nota anche come Dakshayani, che si autoimmolò perché non era in grado di sopportare l’umiliazione inferta da suo padre Daksha nei confronti del marito Shiva, ancora vivente. La pratica della sati compare per la prima volta nel 510 a.C., quando una stele che ricorda questa storia venne eretta a Eran, antica città nello stato moderno del Madhya Pradesh.

La pratica della sati era considerata la più alta espressione di devozione coniugale verso il marito morto. Era ritenuta un atto di pietà senza pari, finalizzato a liberare dai peccati, dal ciclo di nascita e rinascita e a garantire la salvezza al marito morto e a sette generazioni a venire. Poiché i suoi sostenitori hanno da sempre lodato il comportamento di queste donne rette, non lo si è mai ritenuto un suicidio, altrimenti sarebbe stato vietato o scoraggiato dalle scritture indù.

Solo se la donna era virtuosa e pia sarebbe stata degna di essere sacrificata; di conseguenza, essere bruciata o essere vista come una moglie fallita erano spesso le uniche scelte
(cfr. https://www.indianepalviaggi.it/la-pratica-della-sati-le-vedove-bruciate/). Stein D.K.  nel 1978 scrive: “La vedova sulla strada per la sua pira era oggetto (per una volta) di tutta l’attenzione del pubblico … dotata del dono della profezia e del potere di curare e benedire, si  immolava in pompa magna, con grande venerazione“. Probabilmente si trattava dell’unico modo per esistere, come forse anche per la donna del racconto

[1] Non c’è quindi da stupirsi che le donne vivendo in una società e cultura in cui si prestava così poco attenzione alle donne come individui, abbiano ritenuto che questo fosse l’unico modo per una buona moglie di comportarsi. L’alternativa, in ogni caso, non era attraente. Dopo la morte del marito la vedova hindi si aspettava di vivere una vita apparente, rinunciando a tutte le attività sociali, rasatura della testa, mangiare solo riso bollito e dormire su sottili stuoie grossolane. Per molte la morte era preferibile, soprattutto per le vedove ancora bambine.

Gioco 2: cambio di casa e di abitudini nella morte

Jung in Gli aspetti psicologici dell'archetipo della Madre parla dell'esistenza di due aspetti tra loro opposti racchiusi nel simbolo della Grande Madre, la madre amorosa e la madre terrificante (2). L’archetipo della Grande Madre, che in questo caso potrebbe essere richiamato dal personaggio della nonna, rappresenta il principio benefico, protettivo, sostenitore, stimolante, fecondo e nutriente, finché il figlio non si allontana prendendo la via dell’autonomia e lei si accorge che sta per morire simbolicamente. Allora si trasforma in Grande Madre Terribile che, come Demetra quando Kore fu rapita da Ade per farne la sua sposa, furiosa provocò un lungo inverno e bloccò la crescita di messi e raccolti.

Jung dice anche che sono tre gli aspetti del materno "La sua bontà che alimenta e protegge, la sua orgiastica emotività, la sua infera oscurità"  (3) Inoltre, aggiunge: "Quando avviene una trasformazione, la forma precedente non perde assolutamente nulla della sua forza d'attrazione: chi si separa dalla madre brama di ritornare da lei. Questo desiderio può invertirsi in passione divorante che mette in pericolo il frutto delle acquisizioni precedenti. In questo caso la 'madre' da un lato appare come la mèta più alta, dall'altro come minaccia gravida quanto mai di pericoli, come 'Madre terrificante' (4)

Gioco 3: la cui madre non la lascia parlare

Simbolicamente, con Neumann potremmo parlare di “l’incesto uroborico … sempre visto come segno di morte, di dissoluzione definitiva nell’unione con la madre. Caverna, terra, sepolcro, sarcofago, bara sono i simboli di questo rito di riunione” (5)

Gioco 4: responsabilità e impotenza/onnipotenza nel voler salvare tutti

https://www.comune.laquila.it/pagina129_lapertura-della-porta-santa.html

Trattenere o lasciar andare? Trattenere o lasciar andare un marito, una madre, un figlio, un paziente, un alunno? Ogni scelta, che determina una nuova direzione, una nuova vita, una nuova casa, un luogo “altro” in cui incontrarsi, porta sofferenza e morte di una parte, che però non smette di chiamare attivando sensi di colpa e desideri di riparazione. Neumann scriveva che soltanto la capacità di dire “no”, di distinguere, separare, escludere (piuttosto che unire, abbracciare, fondere) permette la differenziazione dall’Uroboros materno (6)). Non si tratta però di una scelta facile e non scevra da sofferenza!
L’Aquila sembra fare da cornice a tutto ciò. Emblematica infatti è la figura di papa Celestino V, colui al quale viene attribuito il “gran rifiuto”: forse sarebbe stato più facile per Pietro da Morrone accondiscendere alla Grande Madre Chiesa del XIII secolo, continuando a sostenere le sue consuetudini, tra le quali il “traffico delle indulgenze”, piuttosto che dire “NO” attraverso l’istituzione della Perdonanza e della Porta Santa, presso la Basilica di Collemaggio, che ogni anno dal 1294 viene aperta per permettere ai fedeli la remissione i propri peccati.

 

Bibliografia

1 – Neumann E., 1949, Storia delle origini della coscienza, pp. 54-55 Astrolabio - Ubaldini

2 – Jung C G.,  1938/54, Gli aspetti psicologici dell’archetipo della Madre, in Opere, vol. 9*, Gli archetipi e l’inconscio collettivo, Boringhieri, Torino, 1980

3 - Idem

4 - Jung C. G., 1912/52, Simboli della Trasformazione, in Opere, vol. 5, Boringhieri, Torino, 1970, p. 83.

5 - Neumann, 1949, Storia delle origini della coscienza, AstRolabio, Roma, 1978, p. 236.

6 - ibidem, p. 297.

Si consiglia inoltre di visitare: https://www.indianepalviaggi.it/la-pratica-della-sati-le-vedove-bruciate/

Abitare la notte dott.ssa Marina Pagliarini

“Tutto ha il suo momento, e ogni evento ha il  suo tempo sotto il cielo. C’è un tempo per nascere e un tempo  per morire, un tempo per piantare e un tempo per sradicare  quello che si è piantato. Un tempo per uccidere e un tempo per curare, un tempo per demolire e un tempo per costruire. Un tempo per piangere e un tempo per ridere, un tempo per fare lutto e un tempo per danzare (...) un tempo per cercare e  un tempo per perdere, un tempo per conservare e un tempo  per buttare via  (...)”

(dal Qoèlet o Ecclesiaste)

tempo per piantare, per costruire, per danzare

notte sulla ferrovia
notte sulla ferrovia di N. B.

Una nonna, anziana e sofferente, sente avvicinarsi la fine; lei desidera solo la quiete del LA’, ma è ancora nel QUI con tutto il peso della corporeità e della sua umanità.La giovane e vitale nipote le vuole bene, le vuole stare vicino e la vuole aiutare, cerca di capire. Per la giovane ragazza è il tempo per piantare, per costruire, per danzare: attraversa un QUI che non prevede il LA'. Ma nel gioco dell'incontro tra il QUI e il LA' c’è uno spazio che è un luogo interiore in cui si trascorre la notte, un tempo di riposo, talvolta di angoscia e di domande in cerca di risposta. E abitando la notte, attraverso la notte, nel proprio tempo logico, ecco farsi giorno. Si rinasce al nuovo giorno. È il tempo per cercare: nasce il desiderio della Cura e del farsi soggetto della cura dell'Altro.

“Frammenti di famiglia” – contributo di Viviana Sebastio


Video a cu
ra di: Viviana Sebastio

Vai al video

Musica: Forbidden Colours, di David Sylvian & Ryūichi Sakamoto

Immagini:

Naufragés sur un radeau, di Sylvia_Lefkovitz

Foto di famiglia italiana

Femme de Venise, di Alberto Giacometti

The Cat, di Alberto Giacometti

Transverse Orientation (2021), di Dimitris Papaioannou

La salita, di Jannis Kounellis

Emilio Isgrò

Is This the Life We Really Want? (Roger Waters), di Emilio Isgro

Testi estratti da:

LEV TOLSTOJ (1877)

Anna Karenina, traduz. di Leone Ginzburg per Einaudi, 1961

Jaume Cabré (2011)

“Le voci del fiume”, traduz. di Stefania Maria Ciminelli, La Nuova Frontiera.

Ambrose Bierce, 1985

DIZIONARIO DEL DIAVOLO.

Scelta e Introduzione di Guido Almansi. Traduzione  di Daniela Fink.

Longanesi & C., Milano.

Fernando Pessoa,

“Il libro dell'inquietudine, traduz. di V. Tocco, Oscar classici moderni Vol. 239.

L’età dell’uva, Mattia Tarantino, 2021

Giulio Perrone Editore

Cormac McCarthy

“La strada”, traduzione di Martina Testa, Einaudi 2007

“Frammenti di famiglia”

Introduzione al seminario di Polivisione del 05/02/2022 - h 9,30 - 13,00
a cura di Nicola Basile - socio S.I.Ps.A.

“...esprimere qualcosa di se stesso non gli pare una bella cosa da fare, soprattutto in pubblico. Lo stesso verbo "esprimere" ricorda la secrezione, o, nel migliore dei casi, l'atto di spremere un limone”
Da: Italo Calvino, “La squadratura”, in Giulio Paolini, Torino, Einaudi, 1975, pp. VII-XV.

Brevissima premessa

Descrivere la complessità del gruppo di famiglia, vuol dire domandarsi come utilizzare il vocabolario del gruppo famiglia, interrogarsi su chi parla per il gruppo famiglia, altrimenti non si ascolta altro che rumore.
Kaës ha descritto come in ogni gruppo ci sia un portabandiera ora della parola, ora del sogno, ora del sintomo di quello specifico gruppo. Questi ruoli li ha raccolti in unica definizione: funzioni foriche del soggetto all’interno del gruppo. Questa sera cercheremo di assumere la funzione forica della nostra famiglia.

La clinica del vivere, quotidiana tensione che permette l’incontro come la separazione, potremmo sempre raccontarla come la ricerca di un uomo che non sa di esserlo alla nascita ma che fin prima della nascita è già stato immaginato, sognato, parlato, come Lacan ha non solo teorizzato ma ha mostrato alla psicoanalisi del XX secolo.

Kaës ha ipotizzato come la famiglia stessa non sia un luogo dove il famoso mito di Edipo vive un’immutabile specificità, congelato nel mito arcaico e in quello più moderno della psicoanalisi. Edipo sta in relazione con la complessità del suo ruolo in almeno 5 figure che corrispondono ad altrettanti miti come coniò per Freud l'artista viennese , in cui Edipo “… si può immaginare che contenga stati interni distinti che corrispondono a quello del figlio, dell’uccisore del padre, dell'amante incestuoso della madre, del Padre del fratello dei suoi figli. Si noti che la domanda enigmatica della Sfinge verte anche sui tre stati del medesimo, associati a tre età della vita. Edipo non è uno, è diviso, divide fin nella sua discendenza”[1] 

Ci incontreremo per dare presentazione al caso famiglia, a cui tutti noi apparteniamo, avanzando con le mani avanti nel buio, per trovare non l’individuo, uno tra tanti che confondendosi diviene moltitudine, ma il soggetto che, come Edipo, soffre e vive.

Ne parleremo attraverso frammenti di riflessione, scritti per essere messi in gioco con il dispositivo dello psicodramma, la cui regola di base è il principio della libera associazione.

Cominciamo per dire, e non finire, cosa ho raccolto in questi due mesi, dall’ultimo incontro di Polivisione,

[1] Il lavoro dell'inconscio in tre spazi della realtà psichica. Un modello della complessità.  Rivista di Psicoanalisi – n. 3 – 2010 – S.P.I-  René Kaës

 

Frammenti di famiglia

 

Non si incontra mai una famiglia sola, la famiglia si declina in famiglia di origine, famiglia di nuova costituzione, famiglie legate che legano, per mezzo di articoli di legge e ami, legami, parole che sanno di legge e eros.

La famiglia propone un nome senza microfono, nome inventato che sa di gioia, nome che descrive come gli altri lo descrivono, nome che fa soffrire, perché non è scelto dal soggetto, senza il quale anche il cane non sa come essere chiamato.
Il nome non è mai originale, è sempre usato. È evidente che il nome è già stato detto tante volte, il nome della famiglia è appartenuto e appartiene all'altro, che non risponde alla richiesta di essere chiaro, esplicito.
Il nome nasconde l’utilizzatore primigenio, così bene che per saperne qualcosa di più, si deve ricorrere al mondo cellullare, quella strana cosa che sa di questioni di cellule e di mito mondiale e di nuove forme di comunicazione.

È sempre stata regolare la sua crescita, si dice della figlia come del figlio davanti il pediatra. Ultimamente meno e così si scioglie la gioia e la letizia del parlare del figlio. Altre volte l’argomento si chiude: a parlare del figlio l'argomento diviene la famiglia e la famiglia, come un fastidioso sintomo, non si apre al discorso.

Non si può vomitare in famiglia, anche quando non se ne può più di tenersele dentro quelle parole che ostruiscono il canale digerente dei pensieri di generazioni mutaciche. Eccesso di calore e mancanza di buona alimentazione richiedono diete in equilibrio tra affetti troppo proteici e scelte anoressizzanti. A casa la dieta è difficile da seguire perché in nome della famiglia, viene offerto cibo o troppo grasso o troppo acido. Buon cibo la dispensa non lo vede da tempo. Mancanza di appetiti fanno spizzicare e ciò toglie l’appetito.
La questione alimentare coinvolge tutti: la madre non si siede più a tavola, il padre soffre di disturbi gastrointestinali perché mangia con il figlio merendine e patatine di nascosto, che vengono anche rubate.
La domanda della figlia è se lei non debba scomparire con il nome del padre. Questa domanda non si riesce a decifrare sulle porte del borgo di Celleno, a Celleno ci si arriva seguendo le indicazioni: “borgo fantasma”.

 

Perché ne parlo?

Perché penso che non sia vista, la famiglia.
La madre non la vede come desidererebbe. il padre sta sempre in competizione per l'affetto dei figli in quanto non è il preferito tra i genitori, essendo molto impegnato, il poveretto.

Molti giudizi, tanti dovrei, tanti potrei girano in famiglia, interrompendo l’essere l’uno utile all’altro.
Nessuno è servo di un padrone, l’altro per servire in qualcosa è solo un racconto di libri polverosi di scuola, in cui ob servare rendeva il servo più utile del padrone. Il padre potrebbe farsi servo del figlio, la figlia servirebbe alla madre, il figlio servirà alla sorella e la figlia osserverà il fratello. Le interruzioni di dialogo animano il sospetto che qualcuno serva più dell’altro.

È una questione di autorizzazioni date e di autorizzazioni non dichiarate, di non detti, di assenze durante pandemie e mancanza di incontro, difficili da scrivere che determinano cause e conseguenze, impossibili da punteggiare nella storia familiare. Il figlio non scrive più epistole alla madre che si preoccuperebbe per la sua salute, la madre non scrive al padre dei suoi figli, fa scrivere da un avvocato, fratelli e sorelle non scrivono, registrano vocali accelerati perché così l’altro non tronchi l’ascolto, tra un semaforo e l’altro.

"Chi incontra la famiglia, cioè tutti noi, non ha dimestichezza con la scrittura.....!

..... che si cela dietro segni corporei, tic sociali, riti e memorie digitali che alcuno, sfoglia. Accade però che, a differenza di altre volte, la scrittura si renda necessaria perché si avverte qualcosa attorno cui si sta girando che non si riesce a raccontare. La famiglia può ritrovare così di essere destinataria di un indirizzo e il postino può recapitare il messaggio, a un soggetto che porta il nome degli altri.

C’è anche la possibilità che venga a mancare la storia della famiglia e possa esistere una domanda, impossibile da leggere. In quel borgo non più abitato, ci sono tracce di uomini e donne che lo hanno vissuto, di figli e figlie nati che hanno dato la loro vita perché donne e uomini potessero dire di appartenere a una famiglia. Ma in quei borghi non possiamo scrivere ad alcuno, il postino non recapita più lettere da tempo, i nomi delle famiglie sono divenuti fantasma. Il borgo, a visitarlo, sa di attrazione turistica.

Il primo, il fondatore ha una sua storia particolare che lascia con più domande che risposte. È sua la responsabilità di aver fondato la famiglia. Senza di lui non si parlerebbe di una madre e di un padre figlio, la seconda, più piccola è quella di mezzo. In mezzo a cosa, a chi?
Dopo il primo si sta sempre in un ordine assegnato, inamovibile. Sta a ciascuno dei figli sovvertirlo ma proprio questo essere scelti e, questo non poter scegliere, diventa insopportabile se il figlio non riesce a modellare questo ordine applicando un certo equilibrato caos.

"Plasmare, vestire la figlia che cresce, è il premio che la madre dà a sé stessa"

Il padre si accontenta di veder scrivere il suo nome sul corpo dell’altro, così da non temere troppo la morte. È evidente che il nome materno si offusca e non sa più cosa sia nutriente per lei. Nei registri ecclesiastici i nomi sono stati scritti per far entrare in battaglia il piccolo essere umano. Ma non vi è più alcuno che li vada a leggere. Non stanno su internet. Sarà ancora la luna di miele se la madre sognerà ancora con il padre una nascita, frutto del grembo di lei, seminato da lui, anche quando saranno vecchi. Tale previsione richiede uno spazio protetto perché se ne possa parlare.

"Per non finire....

Per non finire, quando la parola è attaccata dalla occupazione nazi fascista, il corpo nasconde esso e la parola per non perire, uniti nella sopravvivenza. Corpo e parola restano in attesa di un buon transfert, della sapienza di un ascoltatore accogliente, che possa donare al borgo indirizzi, voci e corpi. L’antitesi è, morte elaborabile soltanto con una lotta partigiana e repubblicana. L’attesa regola sia il flusso mestruale femminile, sia l’alternarsi delle stagioni in cui vi è libertà e in cui si soggiace all’occupazione, mito di Proserpina rivisto e non corretto. Oggi ci porremo altri quesiti su come interiorizzare processi che portino alla consapevolezza della libertà e della ripetizione.

"Nota finale per iniziare"

Il testo è stato elaborato utilizzando, anche e non solo, la mia osservazione dell’incontro di Polivisione con il dispositivo dello psicodramma analitico del  03/12/2021, condotto dal dott. Giuseppe Preziosi con l’osservazione della dott.ssa Annalisa Pascucci

Il seminario non è gratuito; si richiede la fatica del proprio esserci e il desiderio della psicoanalisi. Per partecipare scrivere a nuovipercorsiviaborelli@gmail.com indicando il proprio nome, professione, numero di telefono per poter ricevere il link di accesso a meet.

“Sul saperne-venir-fuori e saper-entrare”

Introduzione al seminario di Polivisione del 3/12/2021 - h 20,00 - 21,30
a cura di Nicola Basile - socio S.I.Ps.A.

“Allora il sapere dell’esperienza psicoanalitica è forse soltanto il sapere che
serve a non farsi raggirare dalla fanfara?
Ma a che pro se a ciò non si accompagna un saperne-venir-fuori?
O anche, più precisamente, un sapere introitivo,
un saper-entrare in ciò che è in questione per quanto riguarda il lampo
che può scaturirne sull’inevitabile fallimento di qualcosa
che forse non è la prerogativa dell’atto sessuale.”

Lacan J.- libro XVI “Da un altro, all’altro” pag. 205 – Einaudi editore

“Di fauci aperte e del salvare il pianeta”

Fauci aperte, media televisivi, vomitano significanti ambigui.
Salvare la terra suona come una bugia, detta per calmare l’ansia della generazione che deve ancora mettere i piedi sulla terra senza poter dire la sua.

Chi afferma di operare in nome del potere e della potenza, lascia attonita una popolazione che non sa se avrà discendenti. L’ascia che separava e ordinava è corrotta e inutilizzabile, il suo potere non appare generativo ma fallace e fallato.
In sogno il padre ordina e ingiunge che sia il figlio a farlo al suo posto ma rischia di appiccicare così una patacca. Il simbolo rischia di cadere durante la liturgia della cerimonia, trasformandosi in luccicante medaglia, materia morta. Il padre recita la parte di chi proprio non può più fare figli affinché il figlio si decida a prendere la sua responsabilità ma non sembra convincente. Il caso vuole che faccia da testimone la psicoterapeuta che ascolta il sogno e lo fa risuonare nel gruppo di polivisione. I testimoni si moltiplicano, creando una catena di trasmissione del significante ordine che genera altri ordini. La bocca si accorge di non essere solo cavità fognaria ma buon antro dove spezzettare, mischiare, ingerire affinché si trasformino alchemicamente. Dalla bocca della porta la figlia può uscire e non essere divorata dal niente che distrugge il pensiero e il figlio evita la patacca.

In fondo chi pensa di avere cura dell’altro è iscritto in modo ordinato in albi, ordini, corpi speciali per azioni impossibili, per non essere divorati e non divorare con le loro teorie e dispositivi. Dare un ordine alle pulsioni dionisiache, serve a ciò. Lasciare esse vagare troppo a lungo, potrebbero disordinare l’esistente. L’ordinare lo si sa è del femminile nell’armadio della vita ma è del nome del padre assegnare la trasmissione e un posto.

 

“Urlo qualcosa a Chronos e Zeus, distratti”

Urla il suo dolore la bambina poiché ha scoperto di essere ancora un altro corpo uscito dal grembo materno per soddisfare il rito che dalla semina porta il grano a essere pane sul tavolo del Cristo.

Si accorge che nella stanza accanto, il lessico adulto balbetta, si deforma, non accenna a offrire forme simboliche. La bambina avverte nausea, chiude la bocca e pensa sia meglio rinunciare al cibo. Cristo però non rinuncia a distribuire il pane del corpo del figlio ai fratelli.
Lo offre anche a lei e lei mastica, lo riduce a bolo, lo digerisce. Quel corpo si fa metafora del corpo e la metafora è pensabile in quanto c’è un corpo che è stato sacrificato e messo in croce, divenendo un corpo con il segno negativo davanti che permette che tutti gli altri corpi esistano, direbbe J. Lacan.
Il corpo di Chronos è stato ucciso dopo che lui ha ingerito i figli e dopo che i figli hanno dato una modernizzazione all’Olimpo grazie a Zeus che si congratula con Chronos per l’ottimo lavoro svolto.
Se i due fossero in Inghilterra, li troveremmo davanti un tavolino da tè alle cinque e sempre alle cinque con il Cappellaio Matto e la Lepre di Marzo, mai seduti allo stesso posto così da evitare di essere consumati dal tempo.

La madre genera, genera, genera ancora, ancorata a una femminilità che cattura l’altro dentro di sé per quel tempo che la renderà il fallo lei stessa. Calcisticamente parlando lei è ammonita a farlo, poiché si tratterebbe di un fallaccio. Pertanto, anch’essa deve tornare a farsi parte, a essere vuoto contenitore per ambigue parole. Meglio così riempirsi di nuovo illudendo l’espulso di essere tornato in auge. Ma il fallo porta rapidamente a pensare alla punizione. Si sa che a ripetere un fallo, ci si trova in faccia un cartellino rosso e non si può più giocare.
A questo pensa il dispositivo dello psicodramma che cerca la vitalità del simbolico anche quando essa sembra andata perduta, impedendo l’espulsione e la retrocessione.

 

“Quanto costa adottare una morte”

Bisognerebbe sempre fare i conti con il costo dell’adozione di una morte anche quando Chronos e Zeus banchettano assieme ai corpi dei figli non digeriti dal primo e al corpo del padre ucciso dal secondo, zombies originari.

“Ci sarebbe un maschile che potrebbe prendere l’ordine paterno” se venisse ordinato altrimenti la madre potrebbe mangiarsi anche il padre, se riuscisse a screditarlo. Grazie alla terapia, una ragazza cerca di ricostruire il padre morto. Altrimenti rimarrebbe in giro un fallo, fallato, che cerca riconoscimenti ma non offre riconoscenza, in quanto quello che lo identifica, è perdita economica e non distinzione tra consumo e desiderio. Si legge di lui che lo vogliano ritirare dal mercato in nome di una possibile class action che giace sotto quintali di faldoni illeggibili nella stanza di un giudice irreperibile.

“Di Chronos e Zeus come del Cappellaio Matto e la Lepre di Marzo”

Forse Chrono ingoia i figli e Zeus lo fa fuori per non esser messo in panchina, evitando la furia delle baccanti. I due nello stesso tempo sono morti e vivi, sono nemici e generatori dell’universo, sono ordine e disordine ma mai uno come la madre con il figlio, corpo unico che non deve crescere. La madre allucina un corpo a corpo con il figlio per non farlo divorare dalla violenza del padre, immutabile e pertanto non vivo.

Se così fosse l’uno non sarebbe mancanza dell’altro, insufficienza che ha dato origine alla cifra separandola dall’universo dell’indistinto. Preso atto di ciò, l’insieme -1 si è nascosto nell’ombra dell’uno, durante una sera di clinica del vivere, il dì 5 novembre 2021. La pausa allora non troverebbe la semicroma a darle il suo posto, la battuta calerebbe come colpo di maglio, l’archetto del violino si contorcerebbe lasciando ogni chiave girare a vuoto. La bacchetta che doveva dirigere l’orchestra, stende, colpisce e non attende al compito creativo dell’attesa.
Se non c’è separazione non c’è desiderio., non c’è presenza o assenza, non c’è passaggio di una chiave che offra simbolicamente l’appartenenza per chi Lavora nel CSM.
Le storie degli operatori si intrecciano con quelle dei pazienti, o li accompagniamo alla morte o ci vedono andare via. Il legame non crea ricordo se non possiamo giocare la rimozione della separazione, dato dal dare un ordine a nascita, crescita, morte e alla storia narrata dai testimoni e dagli scritti.

Le istituzioni sono delle madri che vanno via ma dovrebbero essere anche dei padri che passano il testimone autorizzando i figli a divenire orfani in senso simbolico: diventando madri e padri di sé stessi.

“Quando la notte si fa sempre buia”

Chiedi pertanto anche questo, mi volto per scoprire a chi tu l’abbia chiesto, lo chiedi a me, avvolti come siamo nell’ombra della notte che è sempre buia, narra la luna dei fratelli Grimm, tu lo chiedi a me e io lo chiedo a te.

In quella eternità non si possiede ombra e si disattende alla scissione originaria che proietta verso l’indeterminatezza, chiedendo di transitare nella incompletezza.

Senza ombra si manifesta il delirio di essere ricomposti, quindi ufficialmente morti, e non ci si accorge che sulle strisce è passato sopra di me o dell’altro un tir. Mentre passava, l’autista ha potuto solo vedere delle linee chiare e scure poiché colui che era stato chiamato ad uscire dal buio era cosa.
L’autista è stato assolto perché il fatto non sussiste poiché il buio è così reale che non c’è codice legislativo che lo contempli. Se lo facesse, taglierebbe con una luce l’indistinto, proponendo la fatica del sintomo.

In realtà qualcuno afferma che ogni codice, clinico, legislativo, musicale, letterario, psicoanalitico, pedagogico altro non faccia che venerare la divinità. E la divinità muta e cieca, non si fa legge, se non sostiene l’impercettibile oscillazione della sua bilancia che non può restare ferma, come non sarà mai fermo il rivoluzionare pendolo di Galileo.

Galileo rischia ancora di essere condannato per aver reso visibile l’invisibile ingordigia del sapere che non poteva vedere la miserrima piccolezza della cosa terra come la clinica non vede la sua pochezza quando è posta davanti all’ingordigia delle sue sentenze. Il sintomo bulimico si fa relazione con la madre onnipotente che non concede distanza né al figlio, né alla figlia, in quanto corpi indistinti senza ombra.

Nell’ombra, infine, il buco della serratura è difficile da trovare, la chiave tocca soltanto superfici dure e le graffia.

Il signor Celestine Freinet (1986-1966) consigliava, di chiudere gli occhi e avanzare con le mani avanti, delicatamente, sfiorando ciò che non si riconosce, lo definì il “tatonnement”. Ma appena ebbe definito un rivoluzionario metodi di conoscenza per non inimicarsi il buio, qualcuno cercò di trasformarlo in codice. Pare che non ci sia ancora una scuola “Freinettiana” a riportare nel buio la felice luce che ha proiettato quel piccolo uomo socialista sul futuro della trasmissibilità della ricerca. E ci auguriamo che non ci sia mai!

Nota finale

Il testo è stato elaborato sulle osservazioni delle dott.sse Annalisa Pascucci e Sarah Salvatore, realizzate il 05/11/2021 durante l’incontro di Polivisione con il dispositivo dello psicodramma analitico.

Il seminario non è gratuito; si richiede la fatica del proprio esserci e il desiderio della psicoanalisi. Per partecipare scrivere a nuovipercorsiviaborelli@gmail.com indicando il proprio nome, professione, numero di telefono per poter ricevere il link di accesso a meet.

E-book

“Conserve” di Giuseppe Preziosi. Non presentazione di un libro in quattro puntate.

E-book
E-book di G. Preziosi

Quando ci portiamo a spasso, non abbiamo di certo necessità di pensare a quanti tendini stiamo mettendo in movimento, né a quante calorie alla fine del movimento, sensato o insensato che sia, avremo bruciato.
In generale, escludendo tutti i casi di ossessione salutistica o di vero allenamento sportivo, quando andiamo in giro con noi stessi, non pensiamo a prendere con noi il corpo ma tutto che ci servirà o dovrebbe servire.
Le chiavi di casa, quelle della bicicletta, della macchina, la patente, da qualche tempo la mascherina e il gel per le mani, ricevono le nostre attenzioni, il corpo viene da sé stesso, non direi come il cane ma in modo molto simile, quasi automatico, con tutto rispetto per il cane che di automatico non fa mai nulla.
Il corpo è l’alter ego con cui dialogare al momento di entrare nel mondo onirico, quello notturno che abbiamo sempre necessità di far convivere con quello diurno. È sempre lui che ci permette di poter riposare o passare una pessima nottata, al termine della quale saremo lieti di vedere la luce, come fosse il primo giorno di una fuga da clandestini.
Il corpo ci serve e non possiamo dimenticare di conservarlo.
Il corpo è ciò che siamo e ciò di cui non possiamo curarci ogni attimo, pena l’impossibilità di essere noi stessi. Una contraddizione insanabile ai cui estremi sta utilizzare il corpo per farne il recettore di dipendenze e dall’altra l’unico interesse di una vita che diviene schiava di un corpo immaginario. In qualche modo una dimostrazione delle teorie in cui è possibile far coincidere gli opposti.
In mezzo agli estremi di cui sopra, i corpi si scontrano, si incontrano, si distanziano, si infettano, vanno osservati da occhi clinici, sono causa di sguardi sensuali, senza il corpo non ci sarebbe sessualità, che poi la sessualità si arricchisca di eros, è un altro discorso. Il corpo non ne capisce niente di eros ma ogni sua parte può diventare quel meraviglioso oggetto di pensiero che fa da traino al desiderio. Se poi musica e coreografia si mettono a dare corpo alla poesia e all’arte, il corpo fa danzare ombre e lampi che non hanno posto tra le parole ma senza le quali non troverebbero espressione sui palcoscenici, al chiuso o all’aperto che vogliamo immaginare e che in questi giorni mancano.
Il mio corpo ha solo la mia storia, mi viene da affermare. Ne ricordo in modo quasi affettuoso, i momenti in cui mi ha permesso di attraversare un passaggio in parete come di fermare il passante a rete di un avversario ben tenace. Ne ho un buon ricordo anche quando l’ho accompagnato a farsi mettere a posto, piccole manutenzioni, nulla di più, che hanno però richiesto qualche notte in piedi.
L’affermazione che il mio corpo conservi solo la mia storia è un altro inganno. Il mio corpo porta con sé l’esplorazione che milioni di anni hanno compiuto esseri umani sui loro corpi. Tuttavia, poiché il peso di milioni di anni mi sembra eccessivo da portare, preferisco pensare a una storia più recente del corpo. Essere buoni servi del corpo, nel significato di essere coloro che ne sanno più del padrone del corpo, è un concetto che è sempre utile rammentare.
Non va dimenticato però che è qualità del servo saper osservare e saper conservare. Servo, non schiavo, chiaramente.
Tra le letture che ci propone il catalogo di Polimnia Digital Editions è apparso recentemente il testo di Giuseppe Preziosi “Conserve”. E già stiamo tutti pensando a quelle meraviglie del palato che l’eredità culturale della campagna, ci ha consegnato.
Devo deludere il lettore, odori e sapori della cucina non saranno presenti, se non marginalmente, nel testo di Preziosi che ha dato alle stampe solo la prima, delle quattro parti, che comporranno l’intera opera.
Troveremo invece un certo Ottavio Scarlattini che nel 1685, arciprete di Castel San Pietro e precursore di Quentin Tarantino, invitava a riutilizzare un corpo senza vita con “…tecniche di preparazione del “liquore”, fluido cadaverico dalle molteplici capacità terapeutiche, (somiglianti ndr) … a pratiche culinarie.>> (pag. 8). Lo stesso arciprete non disdegnava nemmeno i santi la cui imbalsamazione “rifletteva un ideale di paradiso che era un luogo di corpi, di membra risanate e ormai impassibili, non soggette a decadimento” (pag. 20).
L’immaginario di membra sparse e sante ha condotto la storia di santi e sante durante tutto il medioevo, in un contrabbando di capelli, unghie e maschere, che ritroviamo oggi esposti in mille splendidi luoghi di culto in tutta Europa. Passano i secoli e la stessa trance conservativa si ritrova oggi in quelle aziende che dal 1967 si fanno pagare per conservare corpi che attendono una risurrezione scientista. In pratica uomini e donne pagano affinché il loro corpo, post mortem, venga conservato nel freddo, sperando che un domani, qualcuno, trovi il modo di ridargli vita.
Il corpo a cui Giuseppe Preziosi, psicoanalista che anima il nostro studio, ha dato parola nel primo capitolo della sua opera prima “Conserve”, è un oggetto per tanti contenitori, o, in modo simmetrico, è un contenitore di tanti oggetti dell’immaginario umano che vive nel mondo onirico del diurno come in quello del notturno in una relazione biunivoca.Come ci insegna Bion è il corpo che ha trovato parola grazie alle donne che hanno fondato la psicoanalisi insieme a Freud.

In conclusione, affinché andiate a leggere, Conserve, Polimnia Digital Edition,  vi suggerisco di trovare la soluzione a un piccolo giallo che si nasconde nelle pieghe di questo primo capitolo.
Chi si nasconde dietro il soggetto che tanto interessa lo scrittore?